Tutela dei minori. Lassi: “Individuare i fattori di rischio per mettere in campo strumenti di protezione”

Comprendere i principali fattori protettivi e di rischio di abuso all’infanzia e individuare i gruppi di popolazione maggiormente a rischio di essere abusati o di abusare è fondamentale per implementare efficaci programmi di prevenzione e di protezione nella comunità. In un’ottica propositiva è evidente che gli interventi dovrebbero mirare soprattutto a rafforzare i fattori di protezione, in modo da mettere in campo tutto ciò che favorisce lo sviluppo delle conoscenze e competenze genitoriali, di buone prassi e consapevolezza sia per i minori che per le agenzie educative, promuovendo in buona sostanza un approccio culturale fondato sulla dignità e centralità del bambino

foto SIR/Marco Calvarese

Comprendere i principali fattori protettivi e di rischio di abuso all’infanzia e individuare i gruppi di popolazione maggiormente a rischio di essere abusati o di abusare è fondamentale per implementare efficaci programmi di prevenzione e di protezione nella comunità.
In un’ottica propositiva è evidente che gli interventi dovrebbero mirare soprattutto a rafforzare i fattori di protezione, in modo da mettere in campo tutto ciò che favorisce lo sviluppo delle conoscenze e competenze genitoriali, di buone prassi e consapevolezza sia per i minori che per le agenzie educative, promuovendo in buona sostanza un approccio culturale fondato sulla dignità e centralità del bambino.
Inevitabilmente però è soprattutto attraverso l’individuazione e valutazione a vari livelli dei fattori di rischio per l’abuso nei minori che successivamente si possono mettere in atto interventi di protezione tesi a minimizzare il fenomeno stesso.L’Oms fin dal 2006 ha adottato, in questo senso, un approccio ecologico volto ad intercettare e modificare i fattori sistemici e contestuali che rendono il minore vulnerabile, da una parte e a comprendere la predisposizione di un adulto ad abusare di un bambino, dall’altra. Secondo questo modello, tali fattori si riferiscono al contesto individuale nel suo percorso di vita, al contesto relazionale intra ed extrafamiliare, al contesto comunitario (istituzioni, background culturale, politiche sociali ed economiche).

Le conseguenze a lungo termine dell’abuso subito in età infantile, sembrano inoltre giocare un ruolo nello spiegare il fatto che gli adulti che hanno subito abusi da bambini, presentino un maggiore rischio di abusare a loro volta, anche se i dati a disposizione sono abbastanza controversi. Anche la facilità di accesso, in assenza di un’adeguata vigilanza, al mondo digitale e in particolare ai social media da parte dei minori si sta profilando come fattore di rischio per un possibile adescamento e successivo abuso. D’altra parte il consumo di materiale pedopornografico rappresenta uno dei pochi fattori di rischio con valore predittivo per il disturbo pedofilico.
Per quanto riguarda i fattori sociali, tutte le classi sono interessate dal fenomeno degli abusi. Non esiste invece alcuna correlazione tra omosessualità e abusi sessuali su minore.

Per quanto riguarda l’ambito specifico clericale, sulla base dei dati riportati nei principali report riguardanti la popolazione dei presbiteri coinvolti in abusi sessuali si possono evidenziare alcune caratteristiche: l’età media dell’abusatore al momento del primo abuso che solitamente è di circa 20-30 anni, nei sacerdoti è invece di circa 40 anni (più tardi quindi che nella popolazione generale, e certamente più tardi che nelle persone affette da pedofilia); la più alta prevalenza di vittime normalmente di genere femminile, nei chierici è invece maschile. Anche il luogo principale dell’abuso è in genere, nella maggior parte dei casi l’abitazione della vittima mentre per l’ambito ecclesiale è la canonica o un locale della parrocchia.
La conoscenza dei fattori di rischio oggi ha un riscontro pratico importante, in quanto permette di analizzare i comportamenti dei soggetti coinvolti nei percorsi di custodia ed educazione dei minori, intercettando i campanelli d’allarme (noti anche come red flag) per possibili abusi e promuovendo buone prassi comportamentali. Nonostante questo non è possibile giungere ad una diagnosi preventiva affidabile. In altre parole il valore predittivo di questi fattori non è sufficiente per identificare eventuali abusatori. Anche dal punto di vista psicometrico non esistono allo stato attuale test validati che individuino con una certa accuratezza il possibile abusatore o pedofilo (alcuni test disponibili non sono nemmeno applicabili), e la diagnosi diventa possibile solo dopo che il comportamento abusante si è ormai manifestato.

Pertanto, nella valutazione e nella selezione degli operatori che andranno a rivestire ruoli educativi o di contatto con i minori, è bene prevedere un programma articolato gestito da esperti che preveda sia l’applicazione di strumenti psicometrici (negli Usa sta avendo ad esempio un notevole riscontro l’applicazione di uno strumento di screening, il Diana Screen, ideato proprio per identificare uomini e donne con maggiori probabilità di violare i confini sessuali con bambini e adolescenti), la valutazione dei precedenti penali e carichi pendenti, una attenta raccolta anamnestica con particolare attenzione alla storia psicosessuale e affettiva dell’operatore, ma anche un percorso di approfondimento e contatto con la propria e altrui sessualità, espressione della capacità relazionale dell’individuo, e dunque anche delle sue problematiche relazionali.

Diventa fondamentale favorire l’apertura e la comunicazione riguardo all’ambito della sessualità, per troppo tempo ritenuto argomento tabù in ambito formativo cattolico. Fondamentale ripetere nel tempo questa valutazione e adottare sistemi di buone pratiche, codici etici e comportamentali condivisi continuamente con gli operatori stessi. Si deve dare molta attenzione agli aspetti più concreti e pratici, come quelli della identificazione dei luoghi e occasioni di abuso, in modo da prevenire ogni abuso e garantire un’atmosfera di sicurezza personale e ambientale, ben ricordando anche che un ambiente protetto è, e diventa sempre più, un ambiente che protegge, e non solo per i minori, ma anche per gli stessi educatori.

(*) psichiatra e psicoterapeuta, membro del Consiglio di Presidenza del SNTM; Facoltà Teologica dell’Italia Centrale; Pontificia Università Gregoriana

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