La magia di “Animali fantastici. I segreti di Silente” e le tensioni dell’animo in “Storia di mia moglie” e “La figlia oscura”

Si torna a Hogwarts! Il terzo capitolo della nuova saga di J.K. Rowling, “Animali fantastici. I segreti di Silente”, diretto da David Yates, ci riporta tra le stanze della scuola di magia dove abbiamo visto crescere Harry Potter. La storia questa volta vede però protagonista Albus Silente accanto al magizoologo Newt Scamander. Cast inglese di grande richiamo a cominciare da Jude Law e Eddie Redmayne. In sala troviamo anche i mélo esistenziali “Storia di mia moglie” dell’ungherese Ildikó Enyedi, dal romanzo di Milán Füst, e “La figlia oscura”, folgorante esordio alla regia di Maggie Gyllenhaal dal romanzo di Elena Ferrante

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Si torna a Hogwarts! Il terzo capitolo della nuova saga di J.K. Rowling, “Animali fantastici. I segreti di Silente”, diretto da David Yates, ci riporta tra le stanze della scuola di magia dove abbiamo visto crescere Harry Potter. La storia questa volta vede però protagonista Albus Silente accanto al magizoologo Newt Scamander. Cast inglese di grande richiamo a cominciare da Jude Law e Eddie Redmayne. In sala troviamo anche i mélo esistenziali “Storia di mia moglie” dell’ungherese Ildikó Enyedi, dal romanzo di Milán Füst, e “La figlia oscura”, folgorante esordio alla regia di Maggie Gyllenhaal dal romanzo di Elena Ferrante. Il punto Cnvf-Sir.

“Animali fantastici. I segreti di Silente”
Ci stiamo avvicinando progressivamente al periodo in cui è ambientata la saga di “Harry Potter”. Con lo spin-off “Animali fantastici” – a oggi tre film dal 2016 – J.K. Rowling insieme al regista David Yates (già firma dei titoli di “Harry Potter” a partire dall’“Ordine della Fenice”), con lo storico produttore David Heyman e la Warner Bros., sta raccontando il rapporto tra mondo magico e babbano nella prima parte del XX secolo, tra Stati Uniti e Inghilterra, una stagione che vede protagonisti i professori di Hogwarts negli anni giovanili giovani. In questo terzo episodio a fare da capofila non sono più solamente il magizoologo Newt Scamander (Eddie Redmayne) e il babbano Jacob Kowalski (Dan Fogler), perché entra in campo Albus Silente (Jude Law), in prima linea nel voler arrestare le mire dell’amico-nemico Gellert Grindelwald (Mads Mikkelsen, che subentra a Johnny Depp).

La storia. Siamo nel 1932, tra Vecchio e Nuovo mondo. Newt Scamander, su indicazione di Silente, si reca nel cuore della foresta cinese per recuperare un’antica e rarissima creatura, il qilin, che nel mondo magico viene utilizzata – date le sue proprietà divinatorie – per scegliere la guida internazionale della Federazione dei maghi. Sulle orme del qilin è anche il potente mago oscuro Gellert Grindelwald, che ambisce a impossessarsene per intestarsi un nuovo corso nel mondo dei maghi e dare finalmente battaglia ai babbani, una “minaccia” da estinguere…

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Si entra facilmente in partita con il nuovo “Animali fantastici. I segreti di Silente”, anche rispetto ai due titoli precedenti. La storia inizia infatti a prendere maggiormente forma, a strutturarsi in maniera avvincente e stratificata, giocando inoltre su non pochi richiami con la saga portante di “Harry Potter”: ad esempio l’ingresso di Minerva McGranitt, il ritorno a Hogwarts con tanto di giro di note che riporta alla celebre colonna sonora di John Williams, così come il ruolo di Aberforth Silente, ecc.

Quello che colpisce maggiormente è la cura visiva-formale e un livello di effetti speciali mai così suggestivi e realistici, capaci di suscitare stupore e godimento. A rafforzare la potenza del racconto si unisce poi una riuscita caratterizzazione dei personaggi, che troviamo ancor più affascinanti e brillanti.

Se dunque c’è l’incanto, il fuoco d’artificio della magia visiva, a latitare purtroppo è il brivido. Manca a questo film – e forse alla saga tutta di “Animali fantastici”, per quello che si è visto –, un definito aggancio narrativo-emozionale pari a “Harry Potter”: lì c’era una perfetta armonia di forma e contenuto, di bellezza visiva e sostanza narrativa; un racconto dalla cornice fantastica ma dalla densità tematica, dal realismo, pari alla penna di Charles Dickens.

“I segreti di Silente”, che va detto è forse l’episodio più riuscito dei tre realizzati, risulta una magnifica e avvincente scatola dal contenuto però troppo esiguo. C’è spettacolo sì, ma non adeguata introspezione né metafora sociale. Il film è consigliabile, problematico.

“Storia di mia moglie”
Presentato in concorso al 74° Festival di Cannes, arriva nei cinema “Storia di mia moglie” firmato dalla regista ungherese Ildikó Enyedi, una coproduzione europea che vede anche l’Italia in campo (nel cast Sergio Rubini e Jasmine Trinca). Tratto dal romanzo omonimo di Milán Füst, “Storia di mia moglie” ci porta a esplorare le pieghe dell’animo e le tensioni del sentimento di un uomo assalito da dubbi esistenziali e dal sospetto del tradimento.

La storia. Ambientato tra Amburgo e Parigi negli anni ’20, Jakob Störr è il capitano di una nave che trascorre sistematicamente mesi lontano da casa. Mosso da solitudine e dal bisogno di dare una svolta alla propria vita, decide di sposare la prima donna che incontra in un caffè. Fa così la conoscenza della francese Lizzy (Léa Seydoux), che in poco tempo conduce all’altare. Seguono mesi di amore e passione tra i due, con progetti anche di cambiamento lavorativo per l’uomo. In Jakob si annida però il sospetto del tradimento di Lizzy con l’affascinante e vanesio Dedin (Louis Garrel).

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“Per la prima volta – ha sottolineato la Enyedi – mi cimento con l’adattamento di un romanzo, con l’intenzione di servire i pensieri e la mente di uno scrittore che ammiro profondamente fin dalla mia adolescenza. La trama apparentemente classica servirà ad aprire l’animo degli spettatori, a prepararli ad accogliere gli strati nascosti dentro questa storia di gelosia coniugale”. Nelle parole della regista si coglie chiaramente il nodo tematico di “Storia di mia moglie”, un’elegante indagine sui sentimenti di un uomo di mare che ama ma ha paura di non poter essere ricambiato completamente. Nonostante la lunghezza quasi debordante, ben 170 minuti, il film corre spedito con grande raffinatezza ed eleganza visiva. La regia della Enyedi, insieme ai protagonisti Gijs Naber e Léa Seydoux, danno forza narrativa a un racconto psicologico intrigante ma a tratti fine a se stesso, avvitato in un estetismo (esasperato) che sfiora il puro esercizio di stile. Film complesso, problematico e adatto per dibattiti.

“La figlia oscura”
Un esordio di cui si è parlato molto. È “La figlia oscura” (“The Lost Daughter”) di Maggie Gyllenhaal, attrice hollywoodiana che ha deciso di passare dietro alla macchina da presa perché folgorata dalle parole di Elena Ferrante, dal suo romanzo omonimo. Il film è stato presentato in concorso alla 78a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia, dove ha ottenuto il premio per la miglior sceneggiatura, correndo poi agli Oscar per 3 candidature pesanti.

La storia. Grecia oggi, la cinquantenne Leda Caruso (Olivia Colman) è un’accademica britannica specializzata in letteratura italiana che ha deciso di trascorrere una vacanza su un’isola in cerca di silenzio e riposo. Passando le sue giornate tra la spiaggia e la casa in affitto, Leda si imbatte in una numerosa famiglia di vacanzieri che si agita con schiamazzi e sconfinamenti di ombrellone. Questo impatto attiva in lei una serie di ricordi e traumi sepolti, portandola a rivivere il suo temporaneo abbandono delle due figlie in gioventù per assecondare una travolgente passione amorosa…

THE LOST DAUGHTER: OLIVIA COLMAN as LEDA. CR: YANNIS DRAKOULIDIS/2021

L’opera della Gyllenhaal si pone come ritratto di madri imperfette, di donne che faticano a coniugare carriera, genitorialità e dimensione personale-sentimentale. La regista, muovendosi sul tracciato narrativo della Ferrante, opportunamente rielaborato, cerca di dare voce a desideri, pulsioni e sensi di colpa che giacciono sottopelle, e di cui ci si vergogna. Solleva dunque il velo sul senso di affanno e inadeguatezza che spesso vivono le donne, perché chiamate maggiormente a sobbarcarsi di sacrifici e (pre)occupazioni nel quotidiano.

Se convincono tale cifra narrativa, declinata con originalità e sguardo finemente analitico, e la inappuntabile Olivia Colman, vero perno della storia, a essere onesti non tutto sembra tornare nella dinamica del racconto. Qualche incertezza c’è, narrativa e formale. Al di là di ciò va di certo salutata con favore la prima regia di un’artista che si è sempre distinta per scelte ricercate e mai banali. “La figlia oscura” è complesso, problematico e adatto per dibattiti.

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