L’ascolto per tornare ad essere umani

“Ascoltare con l’orecchio del cuore”, il recente messaggio di Papa Francesco in occasione della 56ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, aiuta ad orientarsi sia nella frastagliata realtà dei media, sia nella vera e propria esperienza comunicativa che ciascuno di noi continuamente vive e di cui viene proposta una attenta fenomenologia. Comune ai due ambiti, inerenti la macrosfera della comunicazione e la microsfera delle relazioni interpersonali, è la dinamica di esclusione dell’alterità che si realizza tramite l’assenza di ascolto, evidenziata dal Santo Padre richiamando la nozione critica di “duologo”, teorizzata dal filosofo ebreo Abraham Kaplan.

foto SIR/Marco Calvarese

“Ascoltare con l’orecchio del cuore”, il recente messaggio di Papa Francesco in occasione della 56ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, aiuta ad orientarsi sia nella frastagliata realtà dei media, sia nella vera e propria esperienza comunicativa che ciascuno di noi continuamente vive e di cui viene proposta una attenta fenomenologia. Comune ai due ambiti, inerenti la macrosfera della comunicazione e la microsfera delle relazioni interpersonali, è la dinamica di esclusione dell’alterità che si realizza tramite l’assenza di ascolto, evidenziata dal Santo Padre richiamando la nozione critica di “duologo”, teorizzata dal filosofo ebreo Abraham Kaplan.

A sostanziare il richiamato ridimensionamento del ruolo dell’altro interviene una autoreferenzialità crescente alla cui matrice conviene dedicare una breve analisi.

1. Oggi, la nostra quotidianità è vissuta all’insegna di una doppia polarizzazione: “mi piace/non mi piace” e “dentro/fuori”.

La prima forma di manicheizzazione ha origine sui social network dove le nostre reazioni assumono una forma basica e binaria: o assenso o dissenso. Nel mondo online, la molteplicità delle possibili sfumature viene drasticamente ridotta a due opzioni. Sbaglieremmo a non considerare le implicazioni della vita online sulla realtà, anche perché è diventato pressoché impossibile distinguere tra i due ambiti.

Andare incontro al reale con un equipaggiamento interpretativo ridotto a due sole possibilità costituisce un notevole impoverimento. E così, proprio mentre la complessità si costituisce a cifra della realtà, proponendo per ogni aspetto del reale diversi piani di lettura, la semplificazione dentro cui siamo immersi ci rende, di fatto, sguarniti sia dal punto di vista cognitivo che da quello emotivo.

Su questo sguardo depotenziato sul mondo si innesta la seconda polarizzazione cui facevo cenno, costituita dalla coppia “dentro/fuori”. Di fronte ad una realtà che appare sempre più incomprensibile, si reagisce con un ripiegamento su di sé e sulle proprie cerchie di riferimento (i miei amici, le mie relazioni, il mio animale di compagnia, ecc.). Si tratta di un modo, forse più ricercato ma non meno subdolo, per tenere gli altri a distanza, al di fuori dal proprio sguardo.

Consegnati alla più radicale autoreferenzialità, in assenza di qualsivoglia contradditorio, risulta piuttosto facile convincersi di essere nel giusto, di vivere rettamente, di non avere nulla da imparare.

A tali condizioni di contesto va poi aggiunto che l’amore di sé e l’alta considerazione che generalmente abbiamo di noi stessi, rendono impervia una salutare introspezione. Rinchiusi in un mondo di specchi, che reiterano all’infinito l’immagine di sé, rischiamo di condurre le nostre esistenze affetti da una vera e propria cecità nei confronti di ciò che realmente vale.

2. In che modo sottrarsi al destino della egolatria? Cercare di individuare dei criteri di verifica dei nostri comportamenti e convinzioni richiede un esercizio di immaginazione. Per quanto paradossale possa sembrare, occorrerebbe, infatti, chiedersi che cosa accadrebbe se immaginassimo di essere nel torto. In una simile, ipotetica, situazione, come potremmo accorgerci di essere nell’errore?

Per diventare consapevoli di come effettivamente stiano le cose, cioè per rendersi conto se le nostre convinzioni sono ben fondate e non una mera illusione, abbiamo bisogno di riferirci ad una istanza esterna a noi stessi. Detto altrimenti, guardare bene a se stessi e al mondo richiede lo sguardo dell’altro.

È proprio questo il livello in cui interviene l’ascolto che, in prima istanza, non è una attività o una raffinata strategia di conquista. Si tratta, piuttosto, di una postura dell’umano che, più simile ad una carezza che ad una prensione, ci permette di superare ogni presunzione di possesso. L’ascolto è, allora, un farmaco che cura le patologie di un io che, eccessivamente incentrato su di sé, non riesce più a guardare obiettivamente alle cose e a se stesso.

3. Non è un caso, dunque, che nel suo Messaggio, Papa Francesco inviti a “lasciarsi sorprendere dalla Verità”, cioè a fare spazio dentro di sé all’inedito, dando così corpo alla discontinuità della monologia, che proprio la Verità può introdurre.

È lo stesso Kaplan a suggerire questa via, quando osserva che “se non cercassimo così tanto la nostra identità, ma ci occupassimo dell’altro, potremmo trovare ciò che non stavamo cercando”. Trovare ciò che non si sta cercando è l’emblema stesso di una vita aperta al mistero e non asfitticamente ripiegata su di sé. È, questa, una sfida che attende ciascuno di noi, individualmente, non solo nei luoghi di lavoro o laddove esercitiamo le nostre responsabilità, ma già a partire dalle nostre relazioni più prossime.

L’ascolto è, in definitiva, l’occasione, continuamente rinnovantesi, per tornare ad essere umani.

(*) docente di Antropologia filosofica ed Etica applicata nell’Università di Pisa e Liu Boming Professor nell’Università di Nanchino NJU

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