Il punto Cnvf-Sir: “Tre piani” di Nanni Moretti dal romanzo di Eshkol Nevo. Da Venezia “Il buco” e “Quo vadis, Aida?”

Famiglie disperse, famiglie ritrovate. È questo il filo rosso che corre lungo il film di Nanni Moretti “Tre Piani”, in Concorso al 74° Festival di Cannes (l’unico italiano) e tratto dal romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo. Ancora, dalla Mostra del Cinema di Venezia arrivano in sala “Il buco” di Michelangelo Frammartino, che percorre la Calabria anni ’60 attraverso l’impresa di un gruppo di speleologi entrata nella storia, e il drammatico “Quo vadis, Aida?” di Jasmila Žbanić, film denuncia sul massacro dei civili a Srebrenica nel 1995. Il punto Cnvf-Sir sulle uscite al cinema

Famiglie disperse, famiglie ritrovate. È questo il filo rosso che corre lungo il film di Nanni Moretti “Tre Piani”, in Concorso al 74° Festival di Cannes (l’unico italiano) e tratto dal romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo. Ancora, dalla Mostra del Cinema di Venezia arrivano in sala “Il buco” di Michelangelo Frammartino, che percorre la Calabria anni ’60 attraverso l’impresa di un gruppo di speleologi entrata nella storia, e il drammatico “Quo vadis, Aida?” di Jasmila Žbanić, film denuncia sul massacro dei civili a Srebrenica nel 1995. Il punto Cnvf-Sir sulle uscite al cinema.

“Tre piani”
Sorprende sempre Nanni Moretti. Il suo tredicesimo lungometraggio, “Tre piani”, rivela ancora una volta la grande capacità del regista di saper raccontare, in maniera acuta e mai accomodante, le inquietudini del nostro presente, scandagliando dimensione sociale ed esistenziale. Punto di partenza è il romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo, che però il regista rielabora calando la storia nell’Italia odierna. Come racconta Moretti, il film mette in quadro “le storie di tre famiglie che vivono nello stesso palazzo. Affronta temi universali come la colpa, le conseguenze delle nostre scelte, la giustizia, la responsabilità dell’essere genitori. Mentre nel libro le storie si interrompono nel momento più alto della crisi, nel film era importante farle accadere fino in fondo, indagare le conseguenze delle scelte compiute dai personaggi”.

Il film in breve: Roma oggi, nel cuore della notte una macchina si schianta contro il piano terra di una palazzina di tre livelli in un quartiere borghese. Nell’incidente viene coinvolta anche una passante, che poco dopo muore. Tale avvenimento finisce per innescare una serie di conseguenze nelle tre famiglie del palazzo, una vertigine che inghiotte tutti e al contempo spinge alla reazione, a infrangere l’assordante torpore.

Moretti costruisce il racconto su più livelli: anzitutto tre piani spaziali, ovvero gli interni del condominio e quindi delle famiglie coinvolte; poi, tre snodi temporali, impostando la narrazione su tre capitoli che si susseguono ogni quinquennio; infine, tre stati esistenziali, tratteggiando la condizione di ciascun personaggio, dalla caduta nella crisi al riscatto.

Il film procede come giallo dell’anima, che cattura anche se incede un po’ lentamente.

Osserviamo le famiglie colte soprattutto nella prospettiva genitoriale, genitori chiamati a guardarsi allo specchio tra inadeguatezze, assenze o timori; un processo di cambiamento che passa dalla stasi alla crisi più bruciante, fino a lasciare trapelare un orizzonte di riconciliazione, laddove possibile.

Tra i quadri più significativi c’è quello dei coniugi Vittorio e Dora (Nanni Moretti e Margherita Buy), due giudici integerrimi alle prese con un figlio ventenne (Alessandro Sperduti), irrisolto e assalito da scariche di frustrazione. È soprattutto Margherita Buy, con la sua finezza interpretativa, il suo gioco di sguardi, a offrire una prova maiuscola, che conquista per come cesella il personaggio di Dora, una donna che per troppo amore verso il marito (e per paura di compiere scelte autonome) accetta di abdicare a se stessa e al ruolo di madre, salvo poi rimettersi in discussione, regalando le pagine più intense e vibranti di tutto il film. Applausi.

Nel complesso “Tre piani” si rivela un film rigoroso, dolente, che coinvolge ma non arriva pienamente a convincere. Segnato – principalmente nel primo capitolo – da qualche incertezza nelle dinamiche narrative, il film trova progressivamente senso ed emozioni (le conversazioni di Dora con la segreteria telefonica del marito oppure la folata di speranza che avvolge tutti i condomini sulle note di un tango “clandestino”). Dal punto di vista pastorale “Tre piani” è consigliabile, problematico e adatto per dibattiti.

“Il buco”
A Venezia78 Michelangelo Frammartino ha convinto la giuria, presieduta dal regista sudcoreano Bong Joon-ho, ottenendo il Premio speciale per il suo ultimo film “Il buco”. Dopo “Il dono” (2003) e “Le quattro volte” (2010), l’autore compone un altro suggestivo quadro nel rapporto uomo-natura, ricomprendendo anche il valore della memoria. Muovendosi tra inchiesta e poesia, “Il buco” offre uno spaccato dell’Italia anni ’60, al tempo del boom economico, mostrando un Paese diviso tra corsa al progresso e un entroterra ancora fortemente contadino. Siamo nella Calabria del 1961, nell’altopiano del Pollino, dove una squadra di speleologi esplora le cavità della terra alla scoperta della grotta del Bifurto, a quasi 700 metri di profondità.

Frammartino mette in quadro il cortocircuito di un’epoca, appunto gli anni Sessanta, stretti nella contrapposizione tra modernità e tradizione, tra fame di futuro e custodia del passato, tra la salita verso l’alto, in cima al grattacielo Pirelli a Milano, e il viaggio nel cuore della terra, nel profondo del Pollino. A questo si aggiunge lo sguardo lirico del regista sulla natura e i suoi ritmi, al seguito di un vecchio pastore; un mondo contadino che sembra però sbiadire piano piano, come del resto lamentava Pier Paolo Pasolini con la fine della civiltà contadina millenaria custode delle tradizione.

“Il buco” ha un respiro contemplativo, che affascina per evidente bellezza visiva, trovando però qualche elemento di affanno nella formula del racconto scarno, senza dialoghi, soggetto a una lentezza a tratti respingente. All’autore va comunque riconosciuto il merito di scelte produttive coraggiose, fuori dal comune, a favore di un racconto cinematografico ricercato e lontano dalle convenzioni. Dal punto di visita pastorale “Il buco” è consigliabile, poetico e per dibattiti.

“Quo vadis, Aida?”
È stato uno dei colpi allo stomaco, anzi al cuore, della 77a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia (2020). È “Quo vadis, Aida?” della regista bosniaca Jasmila Žbanić (suo è “Il segreto di Esma”, Orso d’oro al Festival di Berlino nel 2006), vincitore del premio cattolico Signis e in corsa per i 93i Oscar come film internazionale. La sua uscita nei cinema nel mese di settembre 2021 trova ancora più presa sul presente perché, raccontando il drammatico massacro dei civili a Srebrenica nel 1995 sotto lo sguardo assente dei Caschi blu delle Nazioni Unite, mostra innegabili riflessi purtroppo con il quadro disperante divampato in Afghanistan.

La storia: luglio 1995, la città di Srebrenica viene occupata dall’esercito serbo e la popolazione bosniaca cerca riparo nel centro di accoglienza Onu fuori dalla città; il campo, al collasso, è conteso così tra serbi e Caschi blu, una tensione che sfocia poi nella rovinosa uccisione di oltre 8mila civili. Protagonista è Aida (Jasna Đuričić), ex insegnante di inglese bosniaca che lavora come interprete per l’Onu; la donna deve far fronte al proprio incarico e nel contempo a mettere in salvo la sua famiglia.

Con un forte impianto realistico la Žbanić ricostruisce una drammatica pagina della recente storia europea. E non fa sconti a nessuno, soprattutto al torpore dimostrato dalle Nazioni Unite: un orrore sotto gli occhi dell’Europa. Un’opera dura, serrata, governata con grande padronanza: la regista non mostra la violenza o le efferatezze commesse, le tiene fuori campo, ma questo non attutisce dolore, sconvolgimento e rabbia.

Un film che lascia dunque il segno, soprattutto per fare memoria civile. A imprimere spessore al racconto è l’interpretazione di Jasna Đuričić, che tratteggia con vigore Aida dando conto del dissidio interiore come bosniaca ma anche come madre. Aida sperimenta tutte le sfumature della disperazione, ma non per questo si abbandona all’odio o alla vendetta. Al contrario, resiste e forse lascia aperta la porta alla riconciliazione. Dal punto di visita pastorale “Quo vadis, Aida?” è complesso, problematico e per dibattiti.

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