Il Semestre bianco del presidente della Repubblica, nato per evitare il rischio di forzature autoritarie

È l'art. 88 della Costituzione che attribuisce al presidente della Repubblica la facoltà di sciogliere le Camere, precisando – nel secondo comma – che tale facoltà non può essere esercitata negli ultimi sei mesi del mandato. Si parla per questo motivo di “semestre bianco”. Nel caso dell'attuale capo dello Stato questo periodo inizia il 3 agosto, in quanto Sergio Mattarella ha giurato da presidente il 3 febbraio 2015

(Foto: Francesco Ammendola - Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

È l’art. 88 della Costituzione che attribuisce al presidente della Repubblica la facoltà di sciogliere le Camere, precisando – nel secondo comma – che tale facoltà non può essere esercitata negli ultimi sei mesi del mandato. Si parla per questo motivo di “semestre bianco”. Nel caso dell’attuale capo dello Stato questo periodo inizia il 3 agosto, in quanto Sergio Mattarella ha giurato da presidente il 3 febbraio 2015. L’origine del “semestre bianco” è in un emendamento presentato alla Costituente da un deputato comunista, Renzo Laconi, sardo di Sant’Antioco, molto considerato da Togliatti per le questioni giuridiche.

Nel clima di quegli anni, con il Paese appena uscito da una dittatura, era comprensibilmente viva la preoccupazione di evitare il rischio di forzature autoritarie. E il timore che il presidente uscente potesse ricorrere allo scioglimento delle Camere per manovrare ai fini della propria rielezione è la ratio che sta dietro all’emendamento in questione. Laconi lo illustrò con parole forti, sostenendo che in assenza di questo correttivo il presidente avrebbe avuto “la possibilità di fare un piccolo colpo di Stato legale” sfruttando a proprio favore la proroga dei poteri prevista quando il settennato presidenziale scade con le Camere sciolte. Il relatore – il giurista vicentino Egidio Tosato, eletto con la Dc – non mostrò entusiasmo per l’emendamento, definendolo “superfluo”. Ma aggiunse: “Tuttavia, se l’onorevole Laconi insiste, la Commissione non ha difficoltà ad accettare la sua proposta”. E così avvenne. L’emendamento fu approvato e il “semestre bianco” si ripresenta puntualmente ogni volta che il mandato del presidente della Repubblica giunge al suo compimento naturale.
Nel tempo non sono mancate le proposte per la sua abolizione. Particolarmente autorevole quella avanzata già nel 1963 – appena quindici anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione – dall’allora capo dello Stato, Antonio Segni, che ne argomentò in un messaggio al Parlamento, il primo inviato utilizzando la possibilità prevista dall’art. 87 della Carta. Questo in sintesi il ragionamento di Segni: sette anni sono sufficienti “a garantire una continuità nell’azione dello Stato” e quindi sarebbe bene introdurre la non immediata rieleggibilità del presidente della Repubblica; una volta eliminato “qualunque, sia pure ingiusto sospetto che qualche atto del capo dello Stato sia compiuto al fine di favorirne la rielezione”, si può abolire il semestre bianco che “altera il difficile e delicato equilibrio tra poteri dello Stato e può far scattare la sospensione del potere di scioglimento delle Camere in un momento politico tale da determinare gravi effetti”. Nella dichiarazione diffusa per i 130 anni dalla nascita di Segni, nello scorso febbraio, Mattarella ha ampiamente citato il messaggio del suo predecessore, lasciando così chiaramente intendere di condividerne l’impostazione.
In realtà una modifica costituzionale relativa al “semestre bianco” è stata già effettuata, ma si tratta di un intervento che non tocca il cuore del problema. La legge costituzionale n.1 del 1991 (al Quirinale c’era Francesco Cossiga e a Palazzo Chigi Giulio Andreotti) ha integrato il secondo comma dell’art. 88 stabilendo che la sospensione della facoltà di sciogliere le Camere non scatta nel caso in cui gli ultimi sei mesi del settennato presidenziale “coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura”. L’eccezione è stata introdotta per superare quello che nelle cronache dell’epoca viene definito “ingorgo istituzionale”, dovuto a un particolare intreccio tra la scadenza del Quirinale e quella del Parlamento.

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