Care leaver. Fabjan Thika: “Ognuno di noi ha un tesoro dentro, lo sport mi ha aiutato a scoprirlo”

Trent’anni, di origini albanesi, il pugile semi professionista vive a Trento, dove, insieme con la moglie, ha aperto l’House of Boxing, centro di aggregazione per ragazzi, “lost boy come me”, dice

“Il pugilato mi ha insegnato anche a perdere. Se cadi devi rialzarti, è molto simile alla vita. Mi ha dato molta forza e grinta”. A raccontarlo è stato Fabjan Thika, 30 anni, pugile semi professionista, di origini albanesi, in un incontro promosso da Agevolando, un’organizzazione di volontariato che lavora con e per i care leaver, ragazzi che hanno vissuto o vivono fuori famiglia. Del direttivo di Agevolando della sede di Trento fa parte il fratello maggiore di Fabjan. Dopo un’adolescenza difficile, il riscatto nello sport: a Trento, dove vive, Fabjan ha aperto l’House of Boxing, centro di aggregazione per ragazzi, “lost boy come me”, dice. Da poco ha pubblicato un libro in cui racconta la sua storia, “12 round per migliorare te stesso”. Abbiamo raccolto la sua testimonianza.

Fabjan, quando è arrivato in Italia?

Sono nato il 27 febbraio 1991 a Durazzo, in Albania. Sono venuto in Italia assieme ai miei genitori e a mio fratello, quando io avevo 2 anni e mio fratello 5. Ci siamo stabiliti a Piné, in Trentino. Poco dopo il nostro arrivo, mia madre è stata costretta a scappare perché era vittima delle violenze fisiche da parte di mio padre e di mio zio che ci aveva raggiunti in Italia. Mio fratello ed io rimanemmo soli con nostro padre, che però era dipendente dall’alcool e non riusciva ad essere un padre responsabile. Dopo vari incidenti venimmo segnalati ai servizi sociali del luogo, i quali ci affidarono al Villaggio Sos del fanciullo di Trento.

Com’è stata la sua esperienza nel Villaggio Sos di Trento?

Il Villaggio è stato la nostra salvezza, ci hanno dato tutto il necessario per farci sentire parte di una vera famiglia: amore, istruzione, sicurezza ed educazione.

Considero il fatto di essere cresciuto nel Villaggio una fortuna che non tutti hanno, mi reputo molto più fortunato anche di chi vive in una “vera” famiglia. Io avevo 40 fratelli, una mamma sempre presente, tantissimo spazio sotto casa dove poter giocare, saltare, correre e andare in bici. Ma la cosa più importante è che ci hanno fatto crescere e diventare degli adulti responsabili. Il Villaggio è stato un’opportunità che non potevo perdere. Non è detto che chi vive in una famiglia normale si senta amato, protetto e seguito. Noi al Villaggio ci sentivamo proprio così.

Ha mai provato rabbia per come stava andando la sua vita?

Nel 2005, quando avevo 14 anni, mi sono rotto il ginocchio due volte e per questo ho perso l’opportunità di iniziare la mia carriera calcistica al Chievo Verona, che mi aveva scelto dopo un provino. Qualche mese più tardi mio padre è morto annegato nel Lago di Resia, mentre era ad una festa con gli alpini.

Questo incidente mi ha fatto cadere in un vortice fatto di rabbia e sensi di colpa.

Mi sentivo complice della morte di mio padre perché quel fine settimana era il nostro turno di far visita a papà, ma avevamo litigato al telefono il giorno prima perché non volevamo andare a trovarlo. Così andò a quella festa e, di conseguenza, incontro alla sua morte. Per anni la frase che mi ripetevo in testa era: “Non sarebbe mai successo se fossimo andati a trovare papà come avremmo dovuto fare”.

Come si è avvicinato alla boxe e quanto l’ha aiutata?

Preso dai sensi di colpa e accecato dalla rabbia, parlai con un mio amico prete ex missionario ed ex pugile in gioventù in America latina, il quale mi consigliò di praticare la boxe. Ne parlai ai miei educatori che acconsentirono alla mia richiesta. Il mio primo allenatore fu Dada un ragazzo del Camerun, ex pugile anche lui. Oltre al suo fisico, ammiravo la sua timidezza, l’umiltà e la sua sicurezza. Mi insegnò i valori di questo sport che lo rispecchiavano in pieno. Decisi che volevo diventare come lui. La boxe mi ha insegnato a combattere sempre, sino alla fine, mi ha dato una strada da percorrere quando mi sentivo un “lost boy”, mi è sempre stata vicina in momenti di solitudine, mi ha dato tanto coraggio di lottare per i miei sogni, mi ha insegnato il rispetto verso me stesso e anche verso i miei avversari, mi ha dato molta sicurezza e autostima, mi ha insegnato a lavorare duro per raggiungere i miei obiettivi.

Com’è andata dopo l’uscita dal Villaggio Sos?

Quando sono uscito dal Villaggio avevo appena 18 anni e mi sono trovato ad affrontare una vita da adulto, quando in realtà adulto non lo ero per niente. È stato davvero difficile i primi anni.

Ero ancora molto arrabbiato e non avevo fatto pace con me stesso.

Quando è diventato italiano?

La cittadinanza italiana mi è arrivata solo nel 2015, dopo anni passati a fare il permesso di soggiorno. Mi sentivo italiano da sempre e non essere riconosciuto come tale mi faceva sentire come se questo non fosse il mio posto. Pur di ottenere una cittadinanza in Europa che mi avrebbe consentito di avere più possibilità sia lavorative sia sportive decisi nel 2011 di partire per Marsiglia per arruolarmi nella legione straniera francese. Per fortuna, ho capito che quella vita non faceva per me e decisi di venire via poco prima di essere reclutato come legionario. Poi, nel 2015, mi arrivò la tanto desiderata cittadinanza.

Oltre alla boxe, c’è qualcos’altro le ha dato la forza di andare avanti in questi anni?

Se sono diventato la persona che sono, lo devo non solo a questo magnifico sport ma anche a mia moglie. Ed è proprio assieme a lei che abbiamo deciso di aprire la House of Boxing.

Di che si tratta?

Non è semplicemente una palestra di pugilato, ma un vero centro di aggregazione dove i ragazzi hanno anche uno spazio adibito per studiare, ritrovarsi ed essere sempre supportati e ascoltati da noi coach. Il nostro lavoro principale non è tanto quello di insegnare la boxe, ma usarla come tramite per guadagnarci la fiducia dei ragazzi e aiutarli a liberare tutto il loro potenziale, il tesoro che hanno dentro. Tutti quanti noi abbiamo dentro molto di più di quello che possiamo immaginare: dobbiamo solo alzarci dal forziere sul quale siamo seduti, aprirlo e tirare fuori il tesoro che c’è dentro. Questa è la missione mia e di mia moglie che vogliamo compiere attraverso la House of Boxing. Ora ci sono una quarantina di ragazzi che frequentano la palestra.

Altri articoli in Italia

Italia