Voto ai 18enni per i senatori: una riforma-bandiera?

Difficile che questa riforma renda più efficiente il sistema. Lo scarto di voti determinato dall’età è poco significativo, come invece sottolineano i fautori della riforma, che vorrebbero due Camere omologate ed identiche, prologo al monocameralismo. Resterà l’effetto distorsivo rappresentato dal combinato disposto di una legge anche maggioritaria e del numero molto ridotto degli eletti

(Foto: Presidenza del Consiglio dei ministri)

Qualcuno può ragionevolmente essere contrario ad allargare la partecipazione, in un’epoca in cui la partecipazione è in crisi? La domanda è evidentemente retorica.
Non ci si può stupire dunque del voto plebiscitario in seconda lettura alla Camera sulla proposta di riforma dell’articolo 58 della costituzione. L’elettorato attivo per il Senato passerebbe così da 25 a 18 anni. Non ha partecipato al voto circa un terzo dei deputati, il centrodestra, ma praticamente non ci sono stati voti contrari. La proposta passa ora al Senato per l’ultima votazione, che dovrebbe essere decisiva.
Ma non ci si può neppure stupire per il fatto che, come fu all’inizio della legislatura per la drastica diminuzione del numero dei parlamentari, anche questa riforma appare abborracciata, frettolosa e soprattutto scoordinata con il quadro complessivo.

Si tratta, per come è stata configurata, di una riforma-bandiera, da sventolare ad un elettorato disilluso e distratto, piuttosto che un intervento organico.

Spiega molto bene questo procedere il fatto che non è stato contestualmente modificato l’elettorato passivo, per cui si può essere eletti a Palazzo Madama sempre a 35 anni. Già, perché il Senato era stato immaginato come un’assemblea “anziana”, secondo parametri di tre quarti di secolo orsono. Quando la maggiore età era a 21 anni. Questa dell’età era solo una delle “differenze” che i costituenti avevano immaginato per sistemare il rebus di quello che poi verrà definito un bicameralismo “perfetto” o “paritario”. Così il Senato doveva essere più “anziano”, doveva durare un anno di più della Camera e doveva essere eletto con un diverso sistema elettorale, su base regionale.
Una dopo l’altra queste differenze sono cadute, mentre, non a caso, venivano respinte da referendum le contestuali proposte di riforma del bicameralismo, per trasformare il Senato in una Camera delle autonomie o delle regioni, senza competenze sulla fiducia al governo. La durata è stata omologata, il sistema elettorale è lo stesso, l’età finirà per essere omologata, se non si cambia logica. Cambiare dunque, ma per fare cosa? È la domanda che doverosamente dovrebbe essere posta, ma che tutte le forze politiche eludono.

Difficile che questa riforma renda più efficiente il sistema. Lo scarto di voti determinato dall’età è poco significativo, come invece sottolineano i fautori della riforma, che vorrebbero due Camere omologate ed identiche, prologo al monocameralismo. Resterà l’effetto distorsivo rappresentato dal combinato disposto di una legge anche maggioritaria e del numero molto ridotto degli eletti.

Questo è il punto. La riduzione del numero dei parlamentari, altra riforma bandiera dell’allora partito egemone, tutti assicuravano avrebbe dovuto essere accompagnata da una serie di aggiustamenti per offrire le necessarie garanzie. Quelle garanzie cui i costituenti erano giustamente così attenti e che oggi non si vedono, sostituite dalla logica a brevissimo dei sondaggi settimanali.
Così questa ennesima riforma-bandiera sarà semplicemente l’ennesima occasione mancata.

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