Terrorismo e migrazioni. Bertolotti (React): “Solo una minoranza marginale di migranti può essere associata all’aumento del terrorismo”

Le modifiche ai cosiddetti “decreti sicurezza”, approvate il 6 ottobre dal Consiglio dei Ministri, hanno riacceso il dibattito – in realtà mai chiuso e sempre più piegato a posizioni ideologiche - su immigrazione e sicurezza, immigrazione e terrorismo. È uscito in questi giorni il libro “Immigrazione e terrorismo: I legami tra flussi migratori e terrorismo di matrice jihadista” (ed. Start InSight), di Claudio Bertolotti, direttore esecutivo dell’Osservatorio sul radicalismo e il contrasto al terrorismo (React). Sul tema il Sir ha intervistato l’autore

Nel libro Bertolotti “ricerca e valuta gli elementi a sostegno e a discarico del rischio che i flussi migratori irregolari attraverso il Mediterraneo siano esposti alla contaminazione jihadista”.

Claudio Bertolotti

L’immigrazione irregolare, scrive l’autore, “ha assunto una dimensione che ha numerose ripercussioni sulla stabilità nazionale e internazionale, costituendo oggi un fenomeno di grande rilevanza a livello umanitario e per la sicurezza dei Paesi del Mediterraneo e dell’Europa in particolare”.

Bertolotti, l’immigrazione può essere veicolo di diffusione del terrorismo? Immigrato vuol dire anche terrorista?
L’immigrazione è uno dei veicoli di diffusione di terroristi, più che del terrorismo; ma

immigrato non equivale assolutamente a terrorista.

Nulla prova che gli immigrati di prima generazione in quanto tali siano particolarmente propensi ad aderire al terrorismo. È però vero che l’afflusso migratorio di soggetti provenienti da Paesi a maggioranza musulmana – in cui il terrorismo è un fenomeno accertato – influirebbe in maniera rilevante sul verificarsi di attacchi terroristici nel Paese ricevente. Dunque, da un lato, i migranti provenienti da Stati a prevalenza musulmana e inclini al terrorismo sono in effetti un veicolo importante attraverso il quale il terrorismo si trasferisce ma, dall’altro lato, va evidenziato che

solo una minoranza marginale di migranti provenienti da tali Stati può essere associata all’aumento del terrorismo nei Paesi ospitanti.

Qual è la tendenza prevalente degli immigrati di prima generazione?
Negli immigrati di prima generazione, adulti e con famiglia, la tendenza è nell’impegno a costruire una nuova esistenza per sé stessi e per i loro figli, e a dedicare poco tempo alla politica o all’estremismo religioso. Al contrario, un’adesione più rilevante è stata riscontrata tra gli immigrati di prima generazione, maschi giovani e non sposati. Per contro, sono stati prevalentemente i giovani di seconda o terza generazione, dunque figli e nipoti di immigrati nati in Europa, ad aderire alla chiamata dello Stato islamico e di al-Qa’ida. Un’ulteriore considerazione però andrebbe fatta sulle conseguenze dell’adesione al terrorismo…

Quale sarebbe?
Sebbene gli immigrati siano di fatto un veicolo per la diffusione del terrorismo da un Paese all’altro, è però

improbabile che l’immigrazione, di per sé, sia una causa diretta del terrorismo.

L’Europa stessa, come dimostrato dalle migliaia di jihadisti migrati in Siria per combattere nelle fila dello Stato islamico, è stata una base di partenza dei terroristi-migranti, ma in direzione opposta a quanto comunemente si osserva.

Ci sono dati che danno la dimensione di questo potenziale connubio terroristi-migranti?
Sì, e arrivano da Europol: dal gennaio 2014 alla fine del 2019, 44 rifugiati o richiedenti asilo giunti irregolarmente in Europa sono stati coinvolti in 32 complotti jihadisti. La maggior parte di questi soggetti si sarebbe radicalizzata prima dell’ingresso in uno dei Paesi europei, sebbene i processi di radicalizzazione avviati dopo l’arrivo in Europa siano divenuti più comuni a partire dall’autunno del 2016. Significativo il ruolo dei foreign fighter sopravvissuti ai conflitti in Iraq, Siria e Libia e rientrati in Europa attraverso i flussi migratori – circa il 30% del totale – o con possibilità di rientro, e portatori di un’esperienza emotivamente estrema vissuta all’interno dello Stato islamico. Si tratta di individui coinvolti negli attacchi più letali, come quelli di Parigi e Bruxelles. Su di questi rimane alta l’attenzione in particolare in relazione al rischio di un “effetto blowback”, ossia l’eventualità che con il loro rientro nel Paese di origine possano decidere di agire. La stessa missione navale dell’Ue, Eunavfor Med, ha manifestato nell’estate 2019 la propria preoccupazione verso i potenziali 325.000 migranti che potrebbero lasciare la Libia.

L’economia derivante dal traffico illegale di migranti è collegata anche alla criminalità organizzata. Le reti criminali che gestiscono i traffici di esseri umani, armi, petrolio e droga da Libia e Tunisia sono in qualche modo legate ai gruppi terroristi?
La tratta di esseri umani dal Nord Africa, principale fonte di immigrazione irregolare in Europa, va a sommarsi alla più ampia gamma di fenomeni illegali capaci di alimentare un’economia parallela in Libia, come il contrabbando di petrolio, armi e droga, che finanzia la criminalità organizzata locale, quella transnazionale e il terrorismo. La confusione istituzionale in Libia è un terreno fertile su cui negli ultimi quattro anni sono cresciuti terroristi, milizie, gruppi di poteri locali, soggetti stranieri e criminalità organizzata che hanno creato forti reti commerciali e imposto un illegittimo regime di tassazione su tali economie illegali. La criminalità è diventata un’attività economica strutturale. In tale quadro giocano la loro parte anche i gruppi terroristi, che questa economia alimentano e sfruttano.

Il fenomeno migratorio irregolare è una seria sfida per gli Stati europei: come contrastarlo efficacemente? E che ruolo potrebbe giocare in questa azione di contrasto l’aspetto umanitario?
Radicalizzazione, terrorismo e migrazione irregolare sono fattori interconnessi che espongono i Paesi dell’Ue a specifici rischi, ma le politiche europee nella gestione dei flussi migratori – caratterizzate da assenza di coordinamento e collaborazione tra gli Stati – hanno contribuito a peggiorare la situazione portando all’emergenza dei rifugiati. Un peggioramento che ha messo in crisi lo stesso sistema di Schengen adottato dai Paesi Ue, portandolo negli anni di massima pressione migratoria a rischio collasso, come dimostrato dai casi di Grecia, Italia, e in parte Spagna, lasciati soli ad affrontare un problema comunitario.

Contrariamente alle aspettative di alcune scelte politiche, l’introduzione di leggi severe che regolano l’integrazione e i diritti degli immigrati non sembrano essere efficaci nel prevenire attacchi terroristici.

Al tempo stesso, l’assenza di accordi tra gli Stati europei (o la stessa Ue) e i Paesi di origine dei migranti irregolari, e la sostanziale incapacità politica ed economica di gestione dei soggetti irregolarmente presenti all’interno degli Stati ospitanti, rappresenta una vulnerabilità micidiale in termini di sicurezza interna e aumenta sempre più quel disagio sociale di cui il terrorismo e l’insofferenza sociale si alimentano sempre più.

Qual è, allora, l’approccio da privilegiare nelle politiche di gestione dei flussi migratori?
Le politiche di gestione dei flussi migratori – e con esse la capacità di gestire un processo di assimilazione in alternativa alle politiche di integrazione che hanno dimostrato limiti strutturali – divengono fondamentali nella lotta al terrorismo attraverso un approccio attivamente preventivo

che, da un lato, coinvolga direttamente i singoli soggetti ponendoli di fronte a scelte di consapevole responsabilità e, dall’altro, veda lo Stato prendere decisioni chiare, esplicite e lungimiranti in termini di gestione e prevenzione. È questo l’ambito in cui i Governi devono imporre il rispetto dei principi essenziali alla base dello stesso Stato attraverso strumenti culturali fondati su un’inclusività razionale.

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