Ru486. Casini (Mpv): “La nuova procedura serve a impedire lo sguardo sul concepito e a banalizzare l’aborto”

La pillola abortiva Ru486 potrà essere assunta, senza ricovero obbligatorio, fino alla nona settimana di gestazione: è quanto prevedono le nuove linee di indirizzo per l’interruzione volontaria di gravidanza, che saranno emanate dal Ministero della Salute, come annunciato sabato 8 agosto, in un tweet, dal ministro Roberto Speranza. "Uno scenario tristissimo di morte e solitudine", commenta al Sir Marina Casini Bandini, presidente del Movimento per la vita italiano

(Foto: ANSA/SIR)

In un tweet del ministro della Salute, Roberto Speranza, sono state anticipate le nuove linee di indirizzo per l’interruzione volontaria di gravidanza, che saranno emanate dal Ministero della Salute: esse prevedono che la pillola abortiva Ru486 potrà essere assunta, senza ricovero obbligatorio, fino alla nona settimana di gestazione. Addirittura, 30 minuti dopo l’assunzione le donne potranno tornare a casa. Delle nuove linee di indirizzo e delle loro implicazioni a livello di salute fisica e psicologica della donna nonché a livello etico parliamo con Marina Casini Bandini, presidente del Movimento per la vita italiano.

Queste nuove linee di indirizzo non rappresentano un grave rischio per la salute delle donne?

Gravissimo, direi. Dal punto di vista della salute fisica della donna l’assunzione della Ru486 non è affatto innocua. Anzi, sono provati effetti dannosi sulla donna che vanno dalla nausea al vomito, a forti dolori addominali, alla dissenteria, a disordini endocrini, fino a emorragie irrefrenabili e non mancano casi di morte. Spesso da casa è stato chiamato il 118 per correre in ospedale. Sono tutti effetti documentati. Alcune donne che ci sono passate lo hanno raccontato. È, dunque, una falsità dire che la Ru486 tutela la salute delle donne; è una propaganda ideologica che non tiene conto di tre realtà: quella del bambino nel grembo della sua mamma (che viene ucciso con questo “pesticida antiumano” come lo chiamava Lejeune); quella della donna (che viene ingannata e abbandonata); quella dei reali effetti di questa pillola chiamata con la sigla Ru486. Anzi, in realtà, le pillole sono due: una a base di mifepristone, ormone antiprogestinico che causa la morte del concepito e un’altra (da assumere dopo circa 48 ore) a base di misoprostolo, una prostaglandina che, provocando le contrazioni uterine, determina l’espulsione del figlio dal grembo. Di solito si parla di “pillola” perché si fa riferimento alla prima. Tutto questo è tutt’altro che una “passeggiata” e del resto si ricava anche da qualche anticipazione riguardante le nuove linee guida: le donne che assumono la Ru486 non dovranno essere sole a casa, non dovranno essere particolarmente ansiose né avere una bassa soglia del dolore. Questo la dice lunga ed è perciò grave che non venga mantenuto il ricovero in osservazione, necessario proprio per garantire la sorveglianza sulla salute della donna.

Che cosa comporta anche la possibilità di arrivare alla nona settimana di gestazione?

La Ru486 è stata “calibrata” per raggiungere il risultato mortifero al massimo alla settima settimana (49-50 giorni). Oltre questo limite, da un punto di vista tecnico, la Ru486 diminuisce la sua “efficacia” mortale in modo importante e non si possono escludere danni anche gravi a quella povera e innocente creatura indifesa cullata sotto il cuore della sua mamma. L’allungamento del termine è, dunque, meramente pretestuoso e di sapore rozzamente propagandistico.

Anche da un punto di vista psicologico, la donna sarà lasciata sola nel suo dramma: le ferite psicologiche non saranno ancora più pesanti?

Altamente probabile, anzi, certo. Tutto il processo di morte, dall’assunzione della prima pillola all’espulsione del figlio, è scaricato sulla donna. È lei che tra le pareti di casa, deve “ascoltare” ciò che avviene nel suo utero e cogliere i segnali del “distacco”; è lei che deve essere pronta ad assumere gli antidolorifici quando arrivano i crampi più violenti, è lei che deve sapere come fare di fronte al flusso di sangue che presto o tardi arriverà, è lei che ha la responsabilità di portare a termine l’“operazione” con tutte le possibili complicanze del caso… Uno scenario tristissimo di morte e solitudine che rende prevedibilmente ancora più pesante la ferita psicologica che l’aborto volontario comunque reca alla donna. Una ferita che, prima o poi, si fa sentire e che non si rimargina facilmente. Proprio in questi giorni mi ha scritto Teresa, una volontaria al servizio della vita nascente: “Ho avuto un colloquio con una mamma che ha abortito circa 24 anni fa e non riesce ancora a perdonarsi… Se solo sapessero (o avessero il coraggio di ammettere) quale devastazione della persona provoca un aborto, non abortirebbero”. Tuttavia, non dimentichiamo lo splendido pensiero che San Giovanni Paolo II ha rivolto nell’Evangelium Vitae alle donne che hanno fatto ricorso all’aborto.

Questa nuova procedura segna un’ulteriore banalizzazione dell’aborto, che resta dramma privato in una società individualista?

Senza dubbio. Il fatto stesso che si possa abortire con uno o due sorsi d’acqua – gesto comune, di un attimo, quotidianamente ripetuto e, dunque, insignificante -, come quando si ha sete o si prende una pasticca per il mal di testa, fa sì che si perda consapevolezza di cosa quel gesto significa quando con l’acqua va giù la Ru486 che va a togliere la vita a una creatura innocente e indifesa.

La banalità del gesto serve proprio a impedire lo sguardo sul concepito e quindi a banalizzare l’aborto.

La privatizzazione viene di conseguenza: che bisogno c’è di avere sorveglianza medica se basta bere un po’d’acqua? La logica individualista, che trionfa nel falso mito abortista dell’autodeterminazione della donna, si estende a tutte le relazioni umane fino a recidere le più elementari forme di solidarietà – di cui l’accoglienza del figlio nel grembo della mamma è primordiale modello – e finisce per ritorcersi contro la donna stessa vittima anche lei quanto suo figlio… Come sarebbe bella una mobilitazione generale di donne che chiedono diritti, sì, ma non contro i loro figli più piccoli, ma a loro favore, manifestando quella profonda alleanza tra la donna e la vita nascente che invece la cultura individualista vuole spezzare.

A suo avviso, perché si insiste tanto sull’aborto farmacologico, ora, praticamente, fatto in casa? È anche una questione di risparmio economico per il Ssn?

Certamente! Ideologia ed economia spesso vanno a braccetto. La diffusione della Ru486 rientra in quella mentalità utilitarista che punta a risparmiare sui costi assistenziali.

L’aborto farmacologico a casa comporta un bel risparmio sulla sanità!

Ancora una volta si fa una scelta ideologica? Non si cerca di rimuovere, infatti, le cause che spingono tante volte le donne ad abortire… Solo così, libere dai condizionamenti, potrebbero essere davvero libere di accogliere il proprio figlio.

Sì, questa è la via vincente: liberare la donna dai condizionamenti che la inducono all’aborto. Quante donne, se fossero state davvero libere, non avrebbero fatto ricorso all’aborto! Libere dalle pressioni altrui; libere dal senso di ansia, smarrimento e preoccupazione per una gravidanza difficile o inattesa. Soprattutto libere dalla menzogna che, approfittando proprio della fragilità del momento, dice che è solo un “grumo di cellule” e minimizza l’aborto… È assurdo, se ci pensiamo, discutere sui mezzi per abortire per capire quelli che “tutelano” di più la donna!

Il vero dramma è l’aborto in sé, la sua legittimazione sociale, il suo essere considerato un “servizio” che lo Stato deve offrire, addirittura un “diritto” quando dei diritti umani è la distruzione.

I Centri di aiuto alla vita, come i servizi Sos-Vita e Progetto Gemma, tutto questo lo sanno molto bene. In particolare, l’esperienza dei Centri di aiuto alla vita è ormai consolidata, vasta, ricchissima. Da oltre 40 operano in tutta Italia non “contro” la donna, ma “con” lei, tendendo mani e aprendo braccia, rompendo solitudini e instaurando legami di amicizia che spesso vanno oltre la nascita dei bambini, facendosi carico delle difficoltà, accompagnando le donne nella ricerca di soluzioni ai problemi, offrendo gli aiuti necessari, togliendo di mezzo le cause che spingono verso l’aborto, proponendo percorsi di accoglienza e così restituendo alla donne l’innato coraggio di dire “sì” al proprio figlio che vive e cresce dentro di lei con la fiducia, la serenità e lo sguardo fiducioso sul futuro che ne conseguono. Le nascite sono tutt’uno con la gioia delle mamme. I Centri di aiuto alla vita sono davvero un modello per le istituzioni, uno Stato che rinuncia a punire l’aborto non deve rinunciare a difendere il diritto alla vita con strumenti diversi dalla sanzione penale, strumenti di più alto profilo e di maggiore efficacia. In questa prospettiva sarebbe davvero urgente una riforma dei consultori pubblici sul modello dei Centri di aiuto alla vita, affinché siano unicamente ed esclusivamente un’autentica alternativa alla cosiddetta “Ivg” e quindi anche una risorsa per la salute e la serenità delle donne.

In un mondo segnato dal Covid-19, ancora una volta si opta per una soluzione di morte e non a favore della vita. Si dimentica che il concepito è “Uno di noi”. Cosa chiede il Movimento per la vita?

A proposito di Covid e tutela della vita, ricordo una frase del premier Giuseppe Conte e una del presidente Sergio Mattarella. Il primo ha detto: “Mai come ora la nostra comunità deve stringersi forte, come una catena a protezione del bene più importante: la vita. Se dovesse cedere anche solo un anello, questa barriera di protezione verrebbe meno, esponendoci a pericoli più grandi, per tutti”. Perché la protezione non dovrebbe riguardare anche il diritto alla vita dei più piccoli e i più poveri quali sono i bambini non nati? Il secondo, più recentemente, ha affermato: “Talvolta viene evocato il tema della violazione delle regole di cautela sanitaria come espressione di libertà. Non vi sono valori che si collochino al centro della democrazia come la libertà. Naturalmente occorre tener conto anche del dovere di equilibrio con il valore della vita, evitando di confondere la libertà con il diritto di far ammalare altri”.

Perché il valore della vita non dovrebbe essere considerato quando si parla di aborto?

Se ci è richiesto di evitare di confondere la libertà con il “diritto di far ammalare gli altri”, a maggior ragione non può essere confusa con il preteso e falso “diritto” di togliere la vita ad altri. Sì, perché il concepito è un altro, un essere umano a pieno titolo come lo ha definito il Comitato nazionale per la bioetica, il più povero dei poveri come lo chiamava Santa Teresa di Calcutta, un figlio, insomma, uno di noi. Ed è proprio questo quello che il Movimento per la Vita vuole: portare la società tutta a “vedere” il più piccolo dei figli dell’uomo e della donna e a riconoscerlo come uno di noi; nella consapevolezza che non si tratta di una questione periferica, ma della questione fondamentale, perché è la condizione per un generale e profondo rinnovamento in tutti i campi – morale, sociale, civile, politico… – in cui è in gioco l’esistenza umana e la base per costruire il nuovo umanesimo, quello di cui tutti abbiamo bisogno e che, sulla scia di San Giovanni Paolo II, chiamiamo “civiltà della verità e dell’amore”. Nella costruzione di un nuovo umanesimo il Movimento per la vita cammina insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà che hanno a cuore la vita, elemento essenziale del bene comune.

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