Mariachiara, suora e medico in corsia per gli ammalati di Covid-19: “In quelle tenebre fitte resta soltanto l’amore, il dolore non va anestetizzato”

Francescana alcantarina e dottoressa specializzata in medicina interna, suor Mariachiara Ferrari ha prestato servizio per un mese nel pronto soccorso dell’ospedale di Piacenza: “La voce dei familiari che mi chiedevano di dire le ultime parole ai loro parenti, dei figli che mi chiedevano di accarezzare la loro madre. Momenti toccanti che il cuore conserva”

Ogni mattina, per trenta giorni, Mariachiara ha lasciato il suo abito francescano negli armadietti del pronto soccorso di Piacenza. Per trenta giorni ha indossato il camice e i panni quotidiani della sua vita precedente, quella di medico, specializzato in medicina interna. Un mese lunghissimo nei tempi della memoria. Come le giornate, vissute in corsia, a servizio degli ammalati di Covid-19. Era il 12 marzo, quando suor Mariachiara Ferrari, 36 anni, ha iniziato il suo lavoro nella struttura, dedicandosi alla cura di persone che avevano contratto il coronavirus. Tutto è cominciato dai messaggi che circolavano nelle chat con gli ex colleghi: richieste di aiuto, perché il contagio cresceva e il numero dei medici in servizio non era sufficiente. Così lei, francescana alcantarina, si è sentita interpellata da questo bisogno. E, dopo l’ok delle superiore, ha lasciato il convento di Maglie (Lecce) ed è tornata in corsia, a Piacenza, in una delle prime zone in Italia colpite dalla pandemia, dove ha sostituito i colleghi che si ammalavano.
Quella di Mariachiara è una storia di dono e servizio, di orme seguite, di fiaccole accese, di spoliazione. Di abiti profumati e riposti negli armadi per indossare le vesti della speranza, pregne di sudore e consolazione. Semi sparsi che hanno dato frutto nel giorno della Resurrezione, il 12 aprile, domenica di Pasqua, in cui la dottoressa è tornata interamente alla sua vita da religiosa.

Il ritorno in pronto soccorso. Dai primi giorni in ospedale, suor Mariachiara ha capito che l’avrebbe aspettata “un periodo di grande intensità”, durante il quale è emersa “solidarietà, non solo tra i colleghi ma anche con gli ammalati”. “Si è avvertita da subito la consapevolezza che si stava affrontando qualcosa di superiore rispetto alle forze che si avevano – racconta al Sir –. Questo ha tirato fuori il meglio del personale sanitario: tutti facevano tutto, dal cambiare i pazienti al recuperare letti, al riorganizzare gli ambienti. Poco contava essere medico, infermiere oppure oss. Gli stessi malati si rendevano conto di questo. Anch’essi cercavano di aiutarci come potevano. Questo ha rivelato una grande fratellanza, una grande solidarietà”.

Fratelli, in corsia. Ritorna più volte nel racconto della religiosa una costante che accomuna i medici in servizio nella cura degli ammalati di Covid-19, il rapporto telefonico “difficilissimo e incessante” con i familiari dei pazienti. “Difficilissimo – racconta – perché l’arrivo delle persone da ricoverare era senza tregua. Non era possibile trovare il tempo per fare qualche telefonata e dare notizie alle famiglie, ma se ne capiva la necessità. Purtroppo, in molte occasioni, sono state telefonate per comunicare la gravità di una quadro che molto probabilmente avrebbe portato alla morte di quella persona. Queste comunicazioni per telefono, nella mia esperienza di medico, non le avevo mai date”, ricorda suor Mariachiara, con tono tremante.

“La voce dei familiari che mi chiedevano di dire le ultime parole ai loro parenti, dei figli che mi chiedevano di accarezzare la loro madre… Questi sono stati tra i momenti toccanti che il cuore conserva”.

Dall’altra parte, invece, gli stessi ammalati che “non ti chiedevano più ‘dottoressa, come sto andando?’, ma la possibilità di fare una chiamata, di avvisare casa”. Un semplice telefono diventa così una fiaccola accesa nella notte della speranza.

“Quando le persone in pronto soccorso ce lo chiedevano, davo loro direttamente il mio cellulare. In particolare, se attaccate all’ossigeno e non in grado di muoversi”.

Suora e medico. “Io ero bardata, quindi non ero riconoscibile come suora”, riferisce la religiosa, che segnala come “questo aspetto, invece, è stato più importante per i colleghi”. “Negli ultimi istanti di vita di qualche paziente, mi chiedevano di avvicinarmi a lui per dire una parola o pregare con loro. In altre occasioni, sono venuti loro stessi a porre tanti interrogativi rispetto al senso di quello che stava accadendo”. Così, nell’anonimato prodotto dai dispositivi di protezione individuale è fiorita la bellezza di una vita consacrata che si fa condivisione del lavoro e della sofferenza. Tanto che, al termine del periodo in ospedale, uno dei direttori sanitari le ha confessato che “quando un mese prima aveva visto arrivare all’ufficio personale una suora, aveva pensato:

‘ci hanno abbandonato tutti, solo il Signore ha ascoltato il nostro grido’”.

Nelle parole di suor Mariachiara una convinzione profonda. “Quest’esperienza mi ha messo davanti alla necessità della resurrezione. Vedere sfilare quei camion dell’esercito senza pensare a un ‘arrivederci’ renderebbe tutto invivibile. Tanti di quei pazienti riconoscevano di non essere soli in quello che stavano vivendo. Avevano una serenità che sostituiva la paura”. Anche per lei motore e forza, in quei giorni, sono state “le parole quotidiane del Papa e il sostegno delle sorelle, della mia famiglia e degli amici”. “Il lockdown ha tolto tutto, ma ha lasciato ciò che più conta: la Parola di Dio per la nostra vita e il tesoro delle relazioni”.

Voci e volti. Oggi, tornata a Maglie, suor Mariachiara porta con sé tanti volti e tante voci: “Sono quelli che ancora visitano le notti”. I volti degli ammalati, le voci dei familiari. In particolare, il volto impresso nella sua memoria è quello di una infermiera, quarantenne, madre di due bambini. “L’ho accolta in pronto soccorso. Aveva combattuto qualche mese prima contro una leucemia dalla quale stava guarendo. Nel frattempo ha contratto il Covid-19”. La ricorda come “una persona brillante, sorridente, vivace, molto consapevole del rischio che correva, vista la sua situazione clinica”. “Mi è rimasta particolarmente nel cuore. L’unico suo pensiero erano i figli. Aveva grinta e determinazione nell’affrontare quest’ennesima prova per quei bambini. Purtroppo, non ce l’ha fatta”. La voce, invece, è quella del figlio di una paziente anziana arrivata al pronto soccorso con una polmonite grave, che poco tempo dopo sarebbe morta. “La situazione era compromessa. Questo ragazzo, prima di tutto, mi ha ringraziato. E ciò mi ha colpito tantissimo”.

“In un turno ha chiamato tre o quattro volte per chiedermi di avvicinarmi a sua madre, che era già incosciente. E lui lo sapeva. Mi chiedeva di andare a dire una ‘Ave Maria’ vicino a lei e che lui le voleva bene. L’insistenza di un figlio in lacrime non la scorderò”.

Dal virus una riflessione sulla vita. Da quest’esperienza la religiosa-dottoressa conserva un insegnamento: “Di fronte all’assurdo, alla mancanza di risposte, abbiamo sperimentato tutti che il senso più autentico della vita rimane quello del dono di sé, lasciandoci svegliare dal bisogno dell’altro – chiosa –. A volte, quando le tenebre sono così fitte che sembra che anche il Padre ci abbia abbandonato, Gesù ci ha mostrato una via: è rimasto inchiodato alla sua Croce. L’amore resta, resta sempre, rimane al suo posto, resiste. Mentre il dolore chiede di essere affrontato e vissuto, non di essere anestetizzato”.

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