Bosnia, 30 anni fa la guerra: Sarajevo, la resilienza dei bambini

Il War Childhood Museum di Sarajevo è il primo al mondo dedicato all'infanzia vittima della guerra. È il museo della guerra vissuta e raccontata dai bambini bosniaci anche attraverso oggetti della loro quotidianità. Spiega la direttrice Krvavac: “rivivere la sofferenza provocata dalla guerra può aiutare ad abbattere le barriere etnico-religiose”.

foto SIR/Marco Calvarese

(Sarajevo) “Raccontare la propria storia è anche un modo per riflettere sul passato collettivo, affrontarne i traumi senza rafforzare barriere etnico-religiose. Non solo: rivivere la sofferenza provocata dalla guerra può aiutare a diventare ‘agenti attivi’ nella società. Chi viene qui lascia qualcosa di sé, un peso che si porta dietro da anni, in una sorta di guarigione della memoria. Esce più libero”. Amina Krvavac è la direttrice esecutiva del Wcm, “War Childhood museum” (www.warchildhood.org), il museo dell’infanzia di guerra di Sarajevo.

foto SIR/Marco Calvarese

La incontriamo nella sede del museo, nel centro storico della capitale bosniaca che – durante la guerra in Bosnia, scoppiata nel marzo del 1992, 30 anni fa – subì l’assedio più lungo della storia moderna, 1425 giorni. “È il museo della guerra vissuta e raccontata dai bambini attraverso oggetti della loro quotidianità sconvolta da una guerra incomprensibile” spiega la direttrice mostrando le teche e le installazioni che contengono oggetti come “peluche, libri, lettere, giocattoli, scarpe, borse, un’altalena, una lavagna scheggiata da una granata, magliette, lattine, scatole, disegni”. Il Wcm è stato aperto nel 2017, per opera di Jasminko Halilović che nel 2010 aveva lanciato sul web la domanda “Cosa è stata un’infanzia di guerra per te?” nel tentativo di raccogliere le risposte di chi come lui, nato nel 1989, all’epoca del conflitto era solo un bambino o adolescente. In poco tempo sono arrivate oltre 1000 risposte ognuna contenente un ricordo, un flash, condensato in 160 caratteri, come in un tweet. Da lì a raccogliere e pubblicare tutte le risposte e testimonianze, anche più lunghe degli iniziali 160 caratteri, il passo è stato breve e nel gennaio 2013 Halilović pubblica il libro “War Childhood” (Infanzia di guerra): 328 pagine di storie di giovanissimi cresciuti sotto la guerra. Nel 2017 l’apertura del museo per contenere le tante storie legate alla guerra che continuavano ad arrivare corredate anche dagli oggetti personali dei protagonisti.

Ogni teca un oggetto con una storia da raccontare. Ogni teca mostra un oggetto e racconta una storia diversa ma tutte parlano della resilienza dei bambini davanti alla guerra. Come le scarpine da ballo di Mela, nata nel 1984, con il sogno di diventare prima ballerina della sua città sotto assedio. Dietro quel sogno, non realizzato, il desiderio di tante altre bambine della sua età che rischiavano la vita – bersagli mobili di cecchini e artiglieria- pur di andare a lezione di danza classica. Come i quaderni di Edina, anche lei nata nel 1984, donati dall’Unicef, pieni di bozzetti di abiti e vestiti che avrebbe voluto indossare. Le sue prime creazioni di una vita poi dedicata alla moda. Come l’altalena di Naida, unico arredo di una cantina piena di muffa, che diventava un rifugio durante i bombardamenti serbi. Un campanello, legato allo seggiolino, che suonava quando i bambini dondolavano era il segnale che non si erano allontanati dal rifugio e che erano lì al sicuro. Come l’orsetto di Jaber ricevuto da Amira, bambina di cui si era innamorato. La storia di Jaber e Amira è quella di tanti bambini siriani, vittime della guerra scoppiata nel 2011. Perché nel Wcm oggi sono raccontate le vite dei bambini di tante altre guerre per dare loro voce. Jaber oggi vive in Libano, dove cerca di lavorare e studiare, Amira si è trasferita a Damasco. I due non si sono più visti, ma Jaber ha tenuto il suo orsacchiotto sempre pulito e ordinato.

“Le storie dei bambini possono essere un punto di partenza per creare dialogo e presupposti di riconciliazione e di pace”

aggiunge Krvavac che annuncia a giorni l’inaugurazione di una mostra virtuale (sui social) che andrà ad affiancarsi a quella permanente e a quella itinerante già attive. “Siamo convinti – ribadisce la direttrice – che condividere queste esperienze, conoscerle contribuisce alla comprensione reciproca e a cambiamenti nella società”.

“Non vogliamo restare legati al trauma e alla sofferenza dei bambini che hanno vissuto sotto la guerra ma affermare che ciascuno di noi ha la responsabilità personale di mantenere la pace e superare ogni barriera etnica o di fede, indipendentemente dal luogo in cui vive”.

foto SIR/Marco Calvarese

Il Wcm a Kiev. La scelta di allargare lo sguardo anche ad altri conflitti ha portato il Wcm ad aprire, nel 2018, una sede anche in Ucraina, a Kiev. Il conflitto del 2014 nel Donbass, tra ucraini e separatisti filorussi, dice al Sir Giulia Skubytska direttrice della sede di Kiev, “è stato traumatico. Molti ucraini lo hanno localizzato solo nell’Est del Paese quasi ad esorcizzare la paura. Ora invece, con l’aggressione russa, è l’intero popolo a scoprirsi in guerra”. Skubytska è arrivata circa 20 giorni fa a Sarajevo dalla Polonia e racconta che “la scorsa estate il Wcm di Kiev aveva promosso la sua prima mostra”. Risale invece ad inizio di questo anno l’allestimento itinerante a Kherson con le prime 33 storie della collezione, frutto delle testimonianze raccolte nel Donbass. Ora siamo fermi. È il momento di capire ciò che sta accadendo e di rielaborare il trauma aiutando i più piccoli”. Ieri Sarajevo, oggi Kiev.

Nei suoi primi 5 anni di attività, il Wcm ha registrato oltre 70.000 visitatori nelle sue 12 mostre, ha coinvolto 15.000 bambini in età scolare in attività educative, ha portato la sua collezione a oltre 5.000 oggetti arricchendola con oltre 300 ore di testimonianze audio e video relative a ben 15 conflitti armati narrati dalla prospettiva dei bambini. Da quattro anni, infine, è in atto una collaborazione tra Caritas Italiana in Bosnia e il museo su alcuni ambiti di lavoro comuni.

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