Migranti. Sulla Rotta Balcanica si gioca il “game” della vita

I migranti lo chiamano “The Game” (il gioco), che poi proprio un gioco non è, anzi. Perché è molto pericoloso. Il ‘gioco’ consiste nell’attraversare i confini dei Paesi balcanici per cercare, a costo della vita, di entrare in territorio Ue, vera meta finale, percorrendo sentieri impervi, evitando fili spinati, barriere, telecamere termiche, droni, polizia, manganelli e forze armate. Terreno di gioco: la Rotta Balcanica. A raccontarla al Sir è Daniele Bombardi, coordinatore di Caritas Italiana nei Balcani

Campo Profughi di Bihac ©Caritas Svizzera

I migranti lo chiamano “The Game” (il gioco), che poi proprio un gioco non è, anzi. Perché è molto pericoloso. Il ‘gioco’ consiste nell’attraversare i confini dei Paesi balcanici per cercare di entrare in territorio Ue, vera meta finale, percorrendo sentieri impervi, evitando fili spinati, barriere, telecamere termiche, droni, polizia, manganelli e forze armate. Terreno di gioco: la Rotta Balcanica. Nel 2015 furono oltre 800mila i migranti – in larghissima parte siriani in fuga dalla guerra – che la percorsero per arrivare in Germania, Austria, Belgio e Paesi Scandinavi e chiedere asilo. L’anno dopo, per bloccare i migranti, entrarono in vigore accordi internazionali tra Ue e Turchia e le frontiere tra i Paesi Balcanici furono sigillate. Nonostante ciò il flusso migratorio non si è mai arrestato facendo diventare la Rotta Balcanica la principale via migratoria verso l’Ue, superiore a quella del Mediterraneo. I dati dell’Unhcr, l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, lo confermano: tra gennaio e settembre 2019 sono stati 23.200 i migranti sbarcati in Spagna e 7.600 quelli giunti in Italia a fronte di 46.100 migranti arrivati in Grecia, porta di ingresso della Rotta Balcanica. Numero che a fine 2019 è salito a 59.726 arrivi via mare e circa 15mila via terra, per un totale di circa 75mila migranti arrivati in Grecia. Il doppio del 2018. Di Rotta Balcanica si è parlato nei giorni scorsi a Roma durante il seminario, “Emergenze e crisi umanitarie: il terremoto in Albania, la situazione libica e la rotta balcanica”, promosso da Caritas Italiana. A relazionare sul tema è stato Daniele Bombardi, coordinatore Caritas Italiana nei Balcani. Il Sir lo ha intervistato.

Perché sempre più migranti decidono di incamminarsi sulla Rotta Balcanica?
Il primo motivo è da ricercarsi nella sicurezza: essa, infatti, è meno pericolosa rispetto al viaggio in barcone sul Mediterraneo. Ci si impiega molto più tempo, ha un costo maggiore perché i passaggi di frontiera sono numerosi, ma il rischio di morire è molto più basso. Nonostante si siano registrate diverse vittime (attraversamento di fiumi, rotaie, cadute…) queste sono state molto meno di quelle in mare. Altro motivo è il punto di accesso che è molto facile da raggiungere: la Turchia. Molti migranti dal Nordafrica arrivano a Istanbul in aereo e poi cominciano la lunga camminata sulla Rotta, partendo dalla Grecia.

Quante persone si stima abbiano intrapreso la Rotta Balcanica per migrare?
È un numero in crescita: siamo nell’ordine di oltre 70mila persone solo nel 2019, il doppio del 2018. Nel 2019 nel solo mese di settembre, in Grecia sono sbarcate 10 mila persone, cifra che non si raggiungeva da anni. In Italia il fenomeno non è molto conosciuto perché questi migranti non puntano al nostro Paese, se non per transitare nel Nord Est, ma al Nord Europa, alla Germania, all’Austria.

Chi sono i migranti che tentano il ‘Game’ per arrivare in Europa?

Sono soprattutto bambini, minori non accompagnati e giovani. Non solo adulti. Si stima che un migrante su quattro sia un minore. Quella Balcanica è una rotta percorsa da qualsiasi tipo di migrante. Anche il più vulnerabile prova il ‘Game’.

Quali sono le principali difficoltà che devono superare nel loro cammino?
Alcuni migranti ci hanno raccontato che avevano preferito arrivare via mare, nonostante il pericolo, perché una volta approdati erano a destinazione. Nei Balcani, invece, ci sono almeno sei o sette frontiere da attraversare, Grecia, Macedonia, Croazia, Bosnia, Serbia, Montenegro, Slovenia, Ungheria e prima ancora la Turchia. I confini comunitari con i Paesi balcanici sono sempre più militarizzati e controllati. Inoltre sta prendendo piede la logica dei muri. Ci sono barriere e fili spinati ai confini tra Turchia e Bulgaria, tra Grecia e Macedonia, tra Serbia e Ungheria, e tra Croazia e Slovenia. E si ragiona anche su una barriera marina nel mare Egeo.

Muri e barriere deviano la Rotta, non la fermano.

Molti migranti restano bloccati nei campi profughi…
Campi del tutto inadeguati dove i migranti possono restare bloccati per mesi se non per anni. I Paesi balcanici sono molto fragili dal lato umanitario e dell’assistenza. Hanno messo in piedi un sistema raffazzonato, usando casali, industrie e caserme e strutture abbandonate, prive di ogni servizio minimo, senza riscaldamento. Tutto questo mette a rischio la vita e la salute delle persone. Per questi motivi in alcune isole greche e nel nord della Bosnia è stato decretato lo stato di emergenza umanitaria.

Quanto tempo può impiegare un migrante per percorrere la Rotta e tentare di arrivare nei territori comunitari?
Difficile che un migrante possa impiegare meno di un anno o solo pochi mesi. Quando si arriva in un posto bisogna organizzarsi e farlo è molto costoso. I migranti che giungono in Europa in molti casi hanno già finito i loro soldi. Penso a chi arriva dall’Afghanistan, dal Pakistan, dall’Iran. Devono aspettare che arrivino altri soldi dalle loro famiglie per poter continuare il ‘game’.

Come avviene il passaggio delle frontiere?
Normalmente avviene con dei ‘passeur’, dei trafficanti che pretendono cifre alte senza dare peraltro la garanzia del passaggio del confine.

Molti migranti, infatti, sono respinti ai confini…
La polizia respinge i migranti con violenza e abusi. Le testimonianze, anche di coloro che ce l’hanno fatta a passare, raccontano di persone fermate in Croazia, Slovenia, rimandate indietro e costrette a ricominciare. Ci sono migranti respinti passati da un campo profughi all’altro. Per non parlare poi di abusi, sequestri di beni personali e corruzione che segnano i rifugiati durante il percorso.

©Caritas Svizzera

Cosa fanno i Paesi balcanici per dare un aiuto più strutturato a questi migranti?
Difficile in questo ambito parlare di interventi strutturati. Come detto prima, c’è molta improvvisazione. Si tratta di Paesi economicamente fragili e impossibilitati per questo a dare priorità di intervento alle migrazioni. Per esempio in Bosnia Erzegovina, lo Stato ha affidato all’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) la gestione del fenomeno migratorio. L’Oim, però, non può identificare i luoghi di accoglienza perché privo dell’autorizzazione dello stesso Stato. L’Oim ha cominciato così ad affittare strutture private per alloggiare i migranti. Queste nella maggior parte sono ambienti vecchi, abbandonati, in disuso, privi di tutto, inadatti. In Serbia un vecchio ospedale pediatrico adibito a centro di accoglienza per circa 300 persone non ha acqua potabile da 5 anni. Altri migranti sono ospitati in un motel fatiscente lungo l’autostrada, lontani da centri abitati e impossibilitati a raggiungerli. Con un po’ più di organizzazione si potrebbe allestire una accoglienza più decente e dignitosa.

©Caritas Svizzera

Perché non si fa?

Perché non c’è la volontà politica. Il tema migratorio è molto impopolare, strumentalizzato politicamente e anche costoso. Per un Paese povero come la Bosnia, che non ha risorse nemmeno per i propri cittadini, l’accoglienza di 10mila migranti è pesante.

Il fatto poi che siano migranti in transito non spinge la gente a dare loro una mano. Ma si tratta di un transito molto lento che può durare mesi se non anni.

Ma non è un po’ paradossale che Paesi come quelli balcanici, che aspirano ad entrare nell’Ue, non riescano a fornire una assistenza umanitaria degna di questo nome? La partita dell’integrazione europea si gioca anche con la gestione dei migranti…
Credo che l’Ue voglia giocare con i Balcani lo stesso gioco che sta facendo con la Turchia: avere gli hot spot europei (centri dove identificare, registrare e rilevare impronte digitali dei migranti sbarcati e verificare se possono fare la domanda di protezione internazionale, ndr.) fuori dei confini Ue.

Sembra abbastanza chiara l’intenzione dell’Ue di esternalizzare le frontiere arrivando a pagare questi Paesi perché tengano fermi sui propri territori i migranti. Alcuni governi, come quello serbo, hanno capito e stanno lavorando in questa direzione, tenendosi una quota di migranti, nella speranza di vedere facilitato il loro cammino di adesione all’Ue. Purtroppo non c’è un sistema di controllo idoneo a verificare se i migranti sono accolti secondo il rispetto dei diritti umani.

L’Ue ha poche politiche comuni e l’esternalizzazione delle frontiere è una di queste. I Paesi balcanici si prestano al gioco perché sono tutti in pre-adesione e cercano, così facendo, di ottenere vantaggi.

Cosa dovrebbe fare l’Ue?
Credo che i Paesi europei dovrebbero almeno offrire dei luoghi di accoglienza più decenti ai migranti ed evitare che nella sosta di qualche mese (o anno) debbano dormire a terra, privi di cibo, acqua, luce, medicine e istruzione. La soluzione è possibile se ci fosse la volontà politica. I numeri non sono giganteschi: parliamo di 10mila migranti in Bosnia su 4 milioni di abitanti, 7mila migranti in Serbia su una popolazione di 8 milioni. Numeri gestibili se ci fosse – ripeto – la volontà politica. Le soluzioni tecniche ci sono. L’Ue dovrebbe spingere questi Paesi ad adottarle piuttosto che dare finanziamenti senza poi verificare gli standard di accoglienza.

©Caritas Svizzera

Qual è l’impegno delle Caritas e delle Chiese locali per questi migranti?
Le Caritas sono presenti in moltissimi campi lungo la Rotta e in diversi altri luoghi. Difficile fare un calcolo dei campi: in Bosnia ce ne sono 8, in Serbia 17, in Macedonia 3, non so in Grecia e in altri Paesi. Le Caritas sono presenti in oltre il 60% dei campi impegnate a vari livelli, animazione, distribuzione, educazione, salute. Sono Caritas di Chiese che non hanno maturato particolari esperienze sul campo migratorio se non in quello interno. Devono crescere in formazione e in questo ambito risulta prezioso l’aiuto che molte Caritas europee, Italia in testa, stanno offrendo loro.

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