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Terrorismo. Bertolotti (ReaCT): “Isis ancora attrattivo. Ora è un fenomeno sociale, ideologico più che religioso”

Presentazione, oggi a Roma, del primo "Rapporto sul terrorismo e il radicalismo islamico in Europa" (#ReaCT2020) di ReaCT, l’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo. Intervista al direttore dell’Osservatorio, Claudio Bertolotti: "Il terrorismo jihadista, da solo, è responsabile del 96% di morti per terrorismo in Europa (10 morti nel solo 2019)". Il ruolo dei foreign fighters, la mancanza di leggi ad hoc in Italia, la crescita del terrorismo di destra, sono alcuni dei temi trattati nel Rapporto

“Un Rapporto che nasce con l’intenzione di unire competenze e conoscenze che fanno capo a singoli Centri di ricerca, Istituti, Think tank che guardano all’evoluzione dei fenomeni di radicalismo e terrorismo in Europa. Il rapporto offre un approccio multidisciplinare, il primo a livello nazionale, volto a definire in maniera quanto più completa tale fenomeno”.

Claudio Bertolotti

Così Claudio Bertolotti illustra al Sir il primo “Rapporto sul terrorismo e il radicalismo islamico in Europa” (#ReaCT2020) di ReaCT, l’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo – presentazione oggi pomeriggio a Roma – con il patrocinio del Ministero della Difesa. Il Rapporto, spiega Bertolotti, Direttore esecutivo dell’Osservatorio, “pone la sua attenzione sull’evoluzione del fenomeno terroristico, analizzandone le manifestazioni violente degli attacchi e gli eventi associabili al jihadismo individuale”. “L’attenzione mediatica al fenomeno del terrorismo – aggiunge il direttore – si è concentrata in particolare nel periodo di massima espansione del sedicente Stato islamico (2015-2017) e degli attacchi più importanti in Europa (Parigi, Bruxelles, Berlino, Nizza, Londra); meno attenzione è stata data agli attacchi secondari a bassa intensità che rappresentano la maggior parte delle azioni terroristiche degli anni successivi. L’Osservatorio ReaCT ha registrato e analizzato tutti gli eventi riconducibili alla violenza jihadista in Europa, dal 2004 a oggi”.

Direttore, quali sono i punti chiave del Rapporto?
Il rapporto offre 11 approfondimenti e un ‘case study’ relativo all’aspirante ideologo dello Stato islamico in Italia. Gli elementi principali evidenziati nel Rapporto riguardano innanzitutto l’entità del fenomeno:

 

122 attacchi terroristici ed episodi di violenza di matrice jihadista in Europa dal 2014 a oggi, 18 nel 2019. Il terrorismo jihadista, da solo, è responsabile del 96% di morti per terrorismo in Europa (10 morti nel solo 2019). Il 70% dei terroristi europei sono nati negli anni 70 e 80, sebbene un 20% siano nati prima del 1980: è un fenomeno dunque associato alla capacità di coinvolgimento dei più giovani.

Sebbene la maggior parte degli attacchi degli ultimi 5 anni sia stata considerata come fallimentare, ha però ottenuto un successo a livello operativo (blocco della viabilità urbana, mobilitazione forze di sicurezza, panico diffuso e incidenti correlati) in 8 casi su dieci.

In merito ai temi della radicalizzazione e de-radicalizzazione cosa emerge dal Rapporto?                                                                              Ventitremila estremisti nel Regno Unito (di cui 3.000 pericolosi); in Francia 20.000 schedati di cui 9.000 considerati “attivi”. Sono numeri importanti ed utili per capire l’ampiezza del fenomeno ma non sono indicativi. In merito alla de-radicalizzazione in Europa si procede per tentativi, manca un metodo coerente e affidabile di valutazione dei progetti di de-radicalizzazione, così come mancano operatori preparati. Un problema che si muove parallelamente alla capacità di reclutare e “radicalizzare” da parte dei gruppi jihadisti: nel 50% di attacchi, questi sono avvenuti entro i sei mesi dall’inizio del processo di radicalizzazione: il web si è dimostrato essere lo strumento più importante nel reclutamento. E a proposito di rete

il Rapporto si occupa anche del ruolo dei social-media, della dimensione cyber e limiti normativi: lo sforzo richiesto a tutti gli operatori del settore coinvolti nella lotta contro il terrorismo è quello di continuare ad immaginare l’inimmaginabile.

In che modo si è evoluto il terrorismo jihadhista?
L’evoluzione delle forme di terrorismo si inserisce all’interno di un più ampio fenomeno sociale di natura ideologica, politica e religiosa, che provoca vittime e danni rilevanti, sia sul piano sociale che economico. Dal punto di vista tecnico si è passati dalla condotta di azioni strutturate e pianificate (il Bataclan a Parigi ne è l’esempio) all’imporsi di azioni autonome e improvvisate. Questo ci suggerisce, da un lato, l’esaurirsi di una capacità tattico-operativa e la possibilità di accesso ad armi da guerra ed esplosivi (dimostrato dai diversi tentativi di costruire ‘in casa’ esplosivo a basso potenziale); per contro,

la continua presenza, seppur ridotta, di singoli terroristi autonomi, ci conferma l’esistenza di un ampio bacino potenziale di soggetti disposti ad uccidere e a morire nell’idea dello Strato islamico.

L’evoluzione del fenomeno terroristico si manifesta nella sua capacità di adattamento: in primis organizzativo, rinunciando al coordinamento diretto delle azioni, che sono fatte in nome dello Stato islamico e non ‘dallo’ Stato islamico.

Qual è la principale minaccia o sfida che i Paesi europei sono chiamati a fronteggiare quando si parla di terrorismo islamico?
Il problema principale è la capacità attrattiva che ancora oggi possiede lo Stato islamico, nonostante la sconfitta territoriale in Siria e Iraq.

Non più “Stato” è ora un fenomeno sociale, ideologico prima ancora che religioso

Anzi la religione è mero strumento di giustificazione a violenze che altrimenti non sarebbero giustificabili. Il pericolo è duplice: in primo luogo la capacità di indurre processi di “radicalizzazione veloce”, attraverso il web, e la spinta a colpire attraverso l’azione di singoli soggetti non legati all’organizzazione terroristica, spesso in occasione di eventi rilevanti sul piano mediatico (azioni ad alta intensità, richiami al jihad da parte dei gruppi terroristi), la volontà di colpire da parte di “radicalizzati”). Va poi posto in evidenza un altro pericolo: il ritorno dei foreign fighter che potranno avere il ruolo di “ispiratori” e che sono, al contempo, depositari del sapere e dell’expertise acquisiti sui campi di battaglia in Medio Oriente. Capacità tecniche e conoscitive che possono unirsi alla volontà di agire dei “radicalizzati” europei e ai reclutatori operativi sul web.

E quale la risposta migliore che l’Europa potrebbe dare?
La risposta è sempre preventiva, poiché è materialmente impossibile identificare tra le decine di migliaia di radicalizzati chi possa davvero passare all’azione.

Nessun approccio securitario di stampo liberale è in grado di dare risposte efficaci di fronte a una minaccia di questa entità;

richiederebbe un immenso apparato di sicurezza dai costi insostenibili. E la prevenzione passa attraverso la conoscenza del fenomeno, la condivisione delle informazioni (intelligence), e la preparazione degli operatori chiamati a riconoscere gli indicatori di devianza sociale.

Mi pare evidente che tutto questo è impossibile da raggiungere senza il contributo della politica, è così?
Una prevenzione efficace passa in primo luogo attraverso una consapevolezza da parte della politica che ha la primaria responsabilità di dotare i singoli Paesi e l’Ue degli strumenti legislativi necessari. L’Italia ha da oltre tre anni un progetto di legge che definisce il perimetro d’azione per prevenire il radicalismo e contrastare il terrorismo: tale iniziativa, promossa dagli allora deputati Stefano Dambruoso e Andrea Manciulli, giace in Parlamento.

Senza una legge ad hoc non è possibile ottenere risultati adeguati alla sicurezza della collettività. È ora che l’attuale Parlamento approvi tale essenziale strumento.

Ci sono altre forme di terrorismo emergenti (o dormienti) in Europa che meritano di essere attenzionate per la loro pericolosità?
In una condizione socio-economico in progressivo peggioramento, in cui la marginalizzazione gioca un ruolo importante ma non fondamentale (non tutti i terroristi sono soggetti provenienti da situazioni disagiate o non integrati), il rischio di “radicalizzazioni ideologiche” jihadiste, di estrema sinistra o destra, è alto. Il fenomeno jihadista interessa il 16% delle azioni terroristiche, quello anarco-insurrezionalista e di estrema sinistra il 12%, quello di estrema destra il 3%. Vero è che negli ultimi anni si è assistito a un aumento del fenomeno di estrema destra che, per quanto non abbia raggiunto l’intensità del terrorismo jihadista, è di crescente preoccupazione.

A cosa si deve questa crescita del fenomeno di estrema destra?    Sotto alcuni aspetti potremmo parlare di effetto “reazione”, in parte anche alla violenza jihadista. È una sorta di risposta che, al pari dei terroristi autonomi del jihad, cresce con l’aumentare degli effetti e dell’amplificazione massmediatica del fenomeno.

Il malcontento generale e l’insoddisfazione di individui che si riconoscono in ideologie “forti”, rivoluzionarie, che offrono un’opzione di riscatto: questo è il terreno fertile per le ideologie che giustificano la violenza come strumento politico.

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