Benedetto XVI: il Papa del Magistero

La rinuncia al pontificato in realtà è la continuità di un impegno di servizio, di testimonianza. E di fedeltà al Papa, all’unico Papa. Ha dato così l’esempio per sostenere un pontificato, quello di Francesco, che ha rilanciato, con energia nuovo, la radicalità del richiamo evangelico

(Foto ANSA/SIR)

Per antica tradizione i papi si suddividono in politici e spirituali. Divisione che non regge, evidentemente. Guardando all’eredità di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, uno dei grandi protagonisti di questo avvio di millennio, lo potremo definire il Papa del Magistero. Un deposito ricchissimo, di cui sinteticamente possono risaltare tre passaggi.
Il primo è la definizione e comprensione del Vaticano II. Il 22 dicembre 2005, a conclusione del suo primo anno di pontificato, nel tradizionale discorso alla Curia, ultimo Papa ad avervi partecipato, ci consegna una fondamentale, breve, chiarissima, ficcante, mite e ferma definizione del Concilio.

La parola – chiave è: ermeneutica della riforma. Spiega la dinamica, e la proietta nella vita della Chiesa contemporanea, ovvero nel “litigio” tra conservatori e progressisti, che circostanzia con chiarezza e di cui vede il limite strutturale di fronte invece alle sfide radicali dell’evangelizzazione, che lo stesso Concilio ha indicato.

Il secondo tema è l’interlocuzione con la cultura, in particolare quella occidentale, i grandi dialoghi non a caso in tre luoghi emblematici, Westminster (17 settembre 2010), il collegio dei Bernardins a Parigi (12 settembre 2008), il parlamento tedesco (22 settembre 2011). Benedetto XVI risalta come l’ultimo grande intellettuale europeo. Sono contributi fondamentali che vengono incontro ad un deficit, il grande deficit che accompagna il processo di globalizzazione e di crisi anche bellica della stessa, appunto nella sua radice occidentale. Pone, Benedetto, la questione della verità e circostanzia la formula “etsi Deus daretur”, lanciata a Subiaco, il 1 aprile 2005, declinata nella cultura, nella vita civica, civile ed istituzionale e proposta come orizzonte di senso e di speranza.
Ma qui emerge anche l’elemento dialettico, il conflitto. Questo dialogo solleva grandi e trasversali, financo impensati consensi, ma anche chiusure e opposizioni. Si vede a Ratisbona, un discorso che genera un colossale e planetario malinteso. Fomentato, perché il dialogo, questa idea che il cristianesimo è un elemento costitutivo dell’identità e dello sviluppo culturale mondiale, in un atteggiamento non certo di egemonia, ma di cooperazione, era proprio alla base di quell’intervento (12 settembre 2006). Ecco allora un altro brusco stop: Benedetto XVI è costretto a rinunciare alla visita alla Sapienza (17 gennaio 2008), ma il discorso che invia è un grande documento di umanesimo contemporaneo.
Per questa strada siamo al terzo tema, ovvero la rinuncia.

È consapevole delle forze che mettono in discussione, sotto attacco, la Chiesa stessa. Certo – si veda la meditazione del Venerdì Santo 2005, poche settimane prima dell’elezione – alla Chiesa serve un processo di purificazione. Benedetto XVI lo porta avanti con chiarezza e decisione, ma in un quadro profondamente conflittuale.

Di qui l’idea di un appello a forze nuove, ovvero l’atto della rinuncia (11 febbraio 2013), un grande atto di riforma, nella coerente continuità dello stesso istituto petrino, che compendia la grande cultura teologica e la profonda cifra spirituale di Benedetto. Segno della profonda vicinanza all’Italia e in concreto dell’amicizia con l’allora presidente della Repubblica è proprio Giorgio Napolitano una delle pochissime persone cui la decisione fu comunicata in anteprima, come ha documentato lo storico Alessandro Acciavatti.
La rinuncia al pontificato in realtà è la continuità di un impegno di servizio, di testimonianza. E di fedeltà al Papa, all’unico Papa. Ha dato così l’esempio per sostenere un pontificato, quello di Francesco, che ha rilanciato, con energia nuovo, la radicalità del richiamo evangelico.

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