Natale 2022. Affinati: “Da Kiev a Teheran il vagito del Bambinello si sente ancora più forte”

“La grotta di Betlemme oggi la ritroviamo a Kiev e Teheran, anche se non dovremmo mai dimenticare i tanti altri microconflitti presenti nel pianeta. E poi dovunque alberga il male, lì, incredibilmente, sentiamo il vagito del Bambinello”. Parla lo scrittore Eraldo Affinati, che ci racconta: "Diversi piccoli, di neppure tre anni, hanno riacceso dentro di me la luce della stella cometa"

foto SIR/Marco Calvarese

Natale ci spiazza ancora una volta sfidando con la sua vertigine la nostra tiepidezza. Dopo due appuntamenti con la venuta del Signore in tempo di Covid, oggi il Bambinello nasce in tempo di guerra, con un sanguinoso conflitto alle porte dell’Europa, ma con una “guerra mondiale a pezzi” che incendia diverse aree del pianeta senza far presagire la possibilità, almeno, di una tregua. Che cosa trova, oggi, il Signore che viene? E noi, dove possiamo scorgere un’aurora di vita e di pace? Lo abbiamo chiesto a Eraldo Affinati, scrittore e insegnante romano, fondatore con la moglie Anna Luce Lenzi della scuola Penny Wirton per l’insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati.

Foto Siciliani-Gennari/SIR

“Gesù nasce sotto le tende di Lesbo e nel gelo dei boschi fra Bielorussia e Polonia”, dicevamo l’anno scorso. E oggi, dove nasce e che cosa trova il Bambino Gesù?
Il Bambino Gesù nasce sempre nella povertà e nelle intemperie della storia. La grande novità e lo scandalo del cristianesimo è proprio questo: un Dio che assume su di sé il dolore del mondo, lasciandoci tuttavia responsabili delle nostre azioni, in grado di scegliere fra cosa è bene e cosa non lo è. Per questo la stalla o la grotta di Betlemme oggi le ritroviamo a Kiev e Teheran, anche se non dovremmo mai dimenticare i tanti altri microconflitti presenti sul pianeta. E poi dovunque alberga il male, lì, incredibilmente, sentiamo il vagito del Bambinello, lo stesso che quando diventerà adulto, dirà: ‘Nessuno è buono, se non Dio solo’ (Marco, 10-18).

Che cosa dice l’immagine di un Dio che si è fatto uomo in un neonato fragile e povero, di fronte alla prepotenza di chi con la forza delle armi tenta di sottomettere i suoi simili?
Il Dio del Nuovo Testamento ci spinge verso la pace, ma non ce la impone: dobbiamo essere noi a creare i presupposti affinché si realizzi. Senza rinunciare alla nostra identità, bensì mettendola in gioco, in un consapevole rischio espositivo. Dire la verità non significa semplicemente brandirla: bisogna tenere presenti i contesti in cui operiamo, sapere che ogni gesto produce una conseguenza da fronteggiare. Quando due persone si picchiano, il sangue non sporca soltanto le loro camicie, ma imbratta anche le nostre.

“Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce”, recita il profeta Isaia, eppure il nostro tempo sembra assomigliare ad una lunga notte oscura. Quale sguardo ci chiede il Signore per scorgere l’aurora?
Di fronte al bambino impiccato dai nazisti, Elie Wiesel rischiò di perdere la fede. Al contrario, secondo il teologo tedesco Jürgen Moltmann, se noi non credessimo che Gesù era lì insieme alla piccola vittima innocente, non potremmo dirci cristiani.

Per molti questo è un tempo di violenza, paura, lutti, privazioni, anche di abbandono e solitudine. Il Papa ci invita alla sobrietà inviando quanto risparmiato al popolo ucraino: “un Natale in pace con il Signore, ma con gli ucraini nel cuore”…
Penso ai profughi ucraini ai quali in questo momento alla scuola Penny Wirton di Roma stiamo insegnando la lingua italiana: donne e bambini impegnati a ricostruire la loro vita spezzata. Abbiamo anche un paio di studenti russi: imparano i verbi accanto a loro. Quando li vedo insieme nello stesso spazio comune, provo una grande emozione. Non dovremmo mai rinunciare alla speranza di poter cambiare, non dico le sorti del mondo, ma almeno la persona che incontriamo.

Potrebbe essere questa la salvezza predicata da Gesù?
Io voglio crederlo. Questi scolari impegnati a compitare le sillabe, le cui nazioni sono oggi contrapposte, non solo russi e ucraini, ma eritrei e etiopici, palestinesi ed ebrei, turchi e curdi, vengono visti da tutti gli altri presenti in aula: indicano la possibilità di una pace separata, non ideale e utopica, ma concreta e operativa. E’ come se ci dicessero:

spogliamoci delle nostre magliette identitarie e ritroviamo la matrice umana che, pur nelle differenze, ci accomuna.

Soprattutto, da educatore, ci tengo che questo spettacolo almeno di contiguità, se non ancora di fratellanza, entri nell’esperienza degli studenti italiani che fanno con noi i tirocini formativi come piccoli docenti dei loro coetanei immigrati. Chi, da adolescente, assiste a una cosa del genere, impara ben più di una semplice formula.

La mancanza di pace nel mondo, di accoglienza umana e dignitosa per i migranti, di solidarietà e giustizia nella società, di rispetto per la casa comune e per le risorse del pianeta… tutto questo fa a pugni con lo spirito del Natale che ci chiama a prendere le distanze dal male e a recuperare la nostra umanità. Un richiamo destinato ancora una volta a cadere nel vuoto?
In queste ultime settimane ho avuto modo di osservare a scuola diversi bambini piccoli, di neppure tre anni, che hanno riacceso dentro di me la luce della stella cometa, indicandomi la via da seguire per evitare sconforti e smarrimenti: Kevin, nigeriano nato in Italia ma concepito in Africa, in piedi sul seggiolone, scruta la folla degli studenti con un’intensità speciale, come se si preparasse ad attraversare l’oceano; Stefano, peruviano appena arrivato nel nostro Paese, raccoglie da terra le carte del mosaico con una solerzia encomiabile; Asma, bengalese dalla faccetta curiosa, mostra fiera alla volontaria i suoi pastelli colorati; Abdullah, afghano finalmente ricongiunto alla famiglia, mi dà la manina con una serietà impressionante. E’ impossibile dire quali vite avranno questi campioncini sui blocchi di partenza. Ma so che incarnano l’infanzia del mondo, la tensione pulsante che ci spinge a non perdere la fiducia nelle nuove generazioni.

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