Discernimento, per valorizzare il negativo

Quando una tristezza è da Dio, essa denuncia in modo molto acuto, doloroso, un male in cui siamo, ci spinge ad ammetterlo a noi stessi, ma al contempo ci palesa un oltre, ci mostra una possibilità alternativa per noi, ci spinge a camminare, a cambiare, a riparare. Ci attiva. Quando invece la tristezza è dal nemico, che attaccando la nostra mente con argomenti cavillosi e tormentanti vuole impedirci di progredire nel bene, ha delle caratteristiche molto diverse: anzitutto, ha sempre il passato come argomento, nella forma del rimorso, del rimpianto, del rancore, del senso di colpa, ecc. In questo modo ci inchioda, inducendoci a vedere che non ci sono per noi possibilità di cambiamento, e che la cosa migliore da fare è rassegnarsi, fermarsi, sdraiarsi al buio. Questo secondo tipo di tristezza ci spegne

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

“Se sappiamo attraversare solitudine e desolazione con apertura e consapevolezza, possiamo uscirne rafforzati sotto l’aspetto umano e spirituale. Nessuna prova è al di fuori della nostra portata; nessuna prova sarà superiore a quello che noi possiamo fare. Ma non fuggire dalle prove: vedere cosa significa questa prova, cosa significa che io sono triste: perché sono triste? Cosa significa che io in questo momento sono in desolazione? Cosa significa che io sono in desolazione e non posso andare avanti?”. Così il Papa ha concluso l’udienza generale del 26 ottobre, ennesimo tassello nel percorso che ci sta offrendo sul discernimento. Si è poi interrotto mercoledì scorso per le celebrazioni di suffragio dei defunti, e ha ripreso oggi, e noi, come nelle volte precedenti, tentiamo di instaurare una certa continuità riflettendo sulle catechesi precedenti, in occasione delle nuove.

L’argomento dell’ultima catechesi è senz’altro sgradevole per la mentalità diffusa, perché ha tematizzato il valore del negativo come ambito privilegiato di discernimento. A un mondo (e non di rado a dei cristiani) che si anestetizza con consumi e intrattenimenti per non sentire, se non a livello delle mucose, il Papa ha ricordato che solo “sentendo” si può imparare a leggere la propria vita (“Il discernimento […] non è principalmente un procedimento logico; esso verte sulle azioni, e le azioni hanno una connotazione affettiva anche, che va riconosciuta, perché Dio parla al cuore”).

All’uomo che, come ogni altro vivente dall’ameba in su, fugge dal dolore e persegue il piacere, è necessario invece fermarsi e ascoltare anche il proprio dolore, la propria fatica, la propria tristezza. Ascoltare non significa assecondare: ma soffocare quella voce tanto sgradita ottiene solo il risultato di darle un potere nascosto e pervasivo. Far emergere la voce della tristezza invece ci permette di scoprire, anzitutto, che c’è tristezza e tristezza, come c’è gioia e gioia, e come ci sono gioie epidermiche e inconsistenti, atte solo ad avvitarci sempre più su noi stessi, in un disperato tentativo di scappare dalla morte facendoci finire esattamente lì dentro, così ci sono tristezze che non sanno di morte, ma di vita, punture salutari che riattivano la nostra coscienza, pungoli nell’anima con cui lo Spirito Santo ci sprona, con dolcezza e fermezza, a riconsiderare la nostra vita, per un di più possibile.

Come riconoscere questo tipo di tristezza, santa e salutare, da quella mortifera che vorrebbe risucchiarci come in un gorgo nero e farci sparire in un autodistruttivo impulso di morte?

Occorre osservarne il moto: quando una tristezza è da Dio, essa denuncia in modo molto acuto, doloroso, un male in cui siamo, ci spinge ad ammetterlo a noi stessi, ma al contempo ci palesa un oltre, ci mostra una possibilità alternativa per noi, ci spinge a camminare, a cambiare, a riparare. Ci attiva.

Quando invece la tristezza è dal nemico, che attaccando la nostra mente con argomenti cavillosi e tormentanti vuole impedirci di progredire nel bene, ha delle caratteristiche molto diverse: anzitutto, ha sempre il passato come argomento, nella forma del rimorso, del rimpianto, del rancore, del senso di colpa, ecc. In questo modo ci inchioda, inducendoci a vedere che non ci sono per noi possibilità di cambiamento, e che la cosa migliore da fare è rassegnarsi, fermarsi, sdraiarsi al buio. Questo secondo tipo di tristezza ci spegne.

Mentre la tristezza che viene da Dio è costruttiva perché ci invoglia a riconsiderare sotto una luce diversa la nostra vita, quella che viene dalla tentazione ci vuole scoraggiare dal progredire, presentandoci un’idea cristallizzata, stagnante, di noi e delle nostre mancanze (sia nel senso di colpe, che di vuoti).

È chiaro che per imparare a distinguere questi due tipi di disagio occorre avere il coraggio di guardarli da vicino anzitutto ammettendoli: troppo spesso, anche negli ambienti di Chiesa, si evade in un ottimismo trionfalistico che alimenta illusioni anziché dissiparle. I Cristiani non devono avere paura di tematizzare il buio, perché la Resurrezione del Signore riempie di luce tutti gli spazi bui della vita, tutte le tristezze, tutte le morti. Integrando il disagio e imparando a riconoscerne la voce, anzi, le voci, non saremo più “sballottati qua e là”, ma sapremo accogliere le emozioni costruttivamente, sotto la guida della ragione e della volontà illuminate dallo Spirito.

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