
Sono a Gerusalemme per la mia associazione Oasi di Pace perché 28 bambini e ragazzi di Betlemme sarebbero dovuti partire per una settimana di libertà, gioco e condivisione in Italia. Un viaggio, verso l’Italia, per lasciarsi alle spalle la chiusura del muro e due anni di guerra silenziosa. Ma il cielo ha cambiato i nostri piani. Un’altra guerra è esplosa: Israele e Iran, due potenze che si sfidano nel buio della notte. E noi, piccoli e grandi, ci siamo trovati sospesi in questo tempo irreale, dove anche i sogni devono aspettare. Io sono qui. In ascolto in preghiera.
Nel sofisticato sistema di protezione israeliano, il primo segnale arriva ai telefoni cellulari. È come una tromba d’allarme, come nei racconti dell’Esodo: “Fate presto, mettetevi in salvo”. Pochi minuti dopo, quando si individua la direzione dei missili,
le sirene cominciano a ‘piangere’ nelle strade. È un suono che ti lacera dentro.
Corriamo nei rifugi preposti. Le famiglie si chiudono nei ‘mamad’, le stanze blindate. Non tutte le case ne sono dotate, e allora ci si rifugia nell’androne del palazzo. Ci stringiamo gli uni agli altri e aspettiamo. Ma anche quando la minaccia passa, il cuore resta sveglio.

Gerusalemme, Città Vecchia, 17 giugno 2025 (Foto A. Sigilli)
L’altra notte, mentre Gerusalemme sembrava essere risparmiata, il cielo sopra di noi si accendeva di bagliori. Sembrava una lotta tra angeli e demoni, una nuova battaglia nei cieli: “Allora vi sarà una grande angoscia, quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino a ora” (Mt 24,21). Gerusalemme non è il fronte, ma lo sfiora. Non è colpita direttamente, ma respira la paura.
Gerusalemme una città spezzata, come il velo del Tempio: a Ovest la parte ebraica, a Est quella palestinese. Una ferita visibile e invisibile, che nessun muro potrà mai guarire. Viviamo sospesi tra odio e ignoranza, tra convivenze forzate e silenzi assordanti. Ma anche in mezzo a tutto questo, Gerusalemme resta sacra.
Perché qui si prega, ancora. E forse è proprio questa preghiera che tiene in vita la speranza. “Pregate per la pace di Gerusalemme: vivano sicuri quelli che ti amano” (Salmo 122,6).
Nei giorni scorsi, la città vecchia è stata chiusa. Le sue porte antiche, testimoni di secoli di storia e lacrime, sono state sbarrate. Solo chi dimostra di abitarvi può entrare. Le strade, sia a Est che a Ovest, sono quasi deserte. I mercati un tempo vivi oggi sono muti. Il banco dei falafel alla Porta di Damasco, una volta affollato, serve in silenzio. Le pescherie non aprono. I giovani sono richiamati sotto le armi. E in mezzo a questo silenzio, si rivela una verità semplice e spoglia: la paura non conosce confini.
In questo tempo sospeso, non c’è distinzione tra arabo o israeliano, tra chi prega in una moschea, in una chiesa o in una sinagoga. Sotto le sirene, siamo tutti figli dello stesso timore.
Basta un errore umano, una distrazione, e ci chiediamo se sarà questa volta a toccare noi. “Il vento soffia dove vuole, e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va.” (Gv 3,8) Così è anche la paura: arriva come un soffio invisibile, e ci accomuna tutti. Non ci sono barriere culturali o religiose che tengano davanti alla fragilità della vita.

(Foto Sir)
Eppure, Gerusalemme, con le sue mura, i suoi silenzi, la sua storia, resta un baluardo. Un simbolo eterno, inchiodato nella roccia, dove ogni pietra sembra sussurrare una preghiera. Le sue mura non solo dividono, ma proteggono. Ci ricordano che, anche nei secoli di dolore, Dio ha vegliato su questo luogo. E io, in mezzo a queste mura, sento che la speranza è ancora viva. Sottile, ferita, ma viva. Come brace sotto la cenere. È la sospensione del tempo. È la vita che trattiene il fiato. Come se tutta Gerusalemme fosse nel Getsemani. E qui non importa se sei palestinese o israeliano, cristiano. E intanto, penso a loro. Ai 28 bambini di Betlemme che avrebbero dovuto partire. A Lonate Pozzolo (Varese), e a Primaluna (Lecco), c’erano cuori pronti ad accoglierli. Ma il loro viaggio si è fermato prima ancora di cominciare. Sono nati dopo la costruzione del muro. Non hanno mai conosciuto la vera libertà. Vivono in una città chiusa, dove perfino un neonato ha bisogno di un permesso per uscire. Questi bambini, che non hanno mai visto il mare, sognano la pace. E io mi domando: chi proteggerà il loro diritto a sognare? In mezzo a tutto questo, io resto qui. Con il cuore in allerta come i telefoni. La mia presenza non è solo testimonianza. È un piccolissimo atto di fede nel Dio che vede, che ascolta, che piange con noi. E mentre la cronaca dei media racconta missili, strategie, geopolitica, io voglio raccontare questa mia storia. Quella di una donna che ha visto bambini rimandare il proprio volo verso una vacanza verso la libertà. Che ha ascoltato i silenzi di una città millenaria, e li ha trasformati in preghiera. Perché anche qui, nella notte più buia, la Parola rimane: “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce” (Is 9,1).
(*) presidente ass. “Oasi di pace”