Robot, somiglianza e identità: un confine da custodire

La recente presentazione del robot umanoide Protoclone da parte della startup Clone Robotics rappresenta un punto di svolta nella robotica biomimetica. Dotato di oltre 1.000 fibre muscolari artificiali, 200 ossa sintetiche e un sistema vascolare idraulico alimentato da una pompa elettrica da 500 watt, questo androide è progettato per replicare in modo sorprendentemente realistico la biomeccanica umana, offrendo movimenti fluidi e coerenti con il corpo umano.

La recente presentazione del robot umanoide Protoclone da parte della startup Clone Robotics rappresenta un punto di svolta nella robotica biomimetica. Dotato di oltre 1.000 fibre muscolari artificiali, 200 ossa sintetiche e un sistema vascolare idraulico alimentato da una pompa elettrica da 500 watt, questo androide è progettato per replicare in modo sorprendentemente realistico la biomeccanica umana, offrendo movimenti fluidi e coerenti con il corpo umano.
Ma dietro l’ammirazione per questa impresa ingegneristica si celano interrogativi profondi: fino a che punto è auspicabile che i robot diventino simili a noi? E cosa rischiamo di compromettere, sul piano antropologico ed etico, quando una macchina si presenta con sembianze umane?
In una prospettiva antropologica personalistica, che riconosce nella persona un essere unico, irripetibile, relazionale e dotato di dignità intrinseca, tali domande assumono un peso decisivo. La persona non è riducibile a funzioni o comportamenti osservabili: è soggetto, non oggetto, ed è sempre fine, mai mezzo. Progettare macchine che imitano l’essere umano non è solo una questione estetica o tecnologica, ma tocca la nostra concezione dell’uomo e della relazione.
Quando si costruisce un robot che replica fattezze, movimenti ed espressioni umane, si rischia una confusione “ontologica”. L’aspetto umano della macchina, infatti, richiama automaticamente una presenza soggettiva, un’interiorità, una reciprocità. Eppure, il robot non sente, non comprende, non ama: esegue. La somiglianza, se portata all’estremo, può portare a illusioni relazionali, in cui si attribuisce intenzionalità o empatia a una macchina priva di coscienza.


In contesti delicati come l’assistenza agli anziani, l’educazione dei bambini o la compagnia di persone sole, ciò può generare effetti psicologici ed etici problematici: sostituire la relazione autentica con una simulazione rischia di erodere la qualità dell’incontro umano e la comprensione del valore della persona.
Inoltre, ridurre l’identità umana a ciò che può essere imitato – un corpo che si muove, una voce che parla, uno sguardo che segue – significa ignorare ciò che dell’uomo è inimitabile: la libertà, la vulnerabilità, la tensione al senso, la responsabilità morale.
Da qui la necessità, sempre più urgente, di preservare la distinzione tra umano e artificiale. Questo non implica il rifiuto della tecnologia, ma una sua direzione etica. I robot possono e devono essere strumenti utili, anche sofisticati, ma non devono necessariamente assumere le nostre sembianze. Ad esempio, un design dichiaratamente non antropomorfo, per quanto evoluto, contribuirebbe a mantenere chiaro il confine tra persona e oggetto, evitando ambiguità percettive e preservando la centralità dell’essere umano.
La robotica avanzata apre scenari promettenti, ma solo una visione antropologica profonda potrà garantire che la tecnica resti al servizio della persona, e non l’inverso. Custodire la differenza tra uomo e macchina non è un atto di conservatorismo, ma un’esigenza di verità e giustizia, perché ogni progresso che ignora la realtà della persona rischia di diventare una sofisticata forma di alienazione.

 

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