Guerra di narcos, assalto allo Stato

Stretto tra Colombia e Messico, due Paesi produttori di coca, l’Ecuador funge da hub di smistamento verso le grandi rotte della distribuzione. La guerra per procura scatenata dai due cartelli messicani, ha messo in ginocchio il piccolo Paese sudamericano, segnato dalla violenza interna e da un tasso di omicidi altissimo

(Foto ANSA/SIR)

Quasi 590 tonnellate di cocaina sequestrate dalle forze dell’ordine negli ultimi 32 mesi. Per comprendere perché l’Ecuador oggi sia sulle prime pagine dei giornali a causa di una violenza senza freni cominciamo da questo dato. 530 tonnellate sono state requisite ai narcos durante la presidenza di Guillermo Lasso, 58 tonnellate nei primi due mesi di governo di Daniel Noboa. Le ultime 22 tonnellate di polvere bianca sono state trovate a metà gennaio in una fattoria di banane di Vinces, 35mila abitanti nella provincia di Los Ríos, zona del litorale dove, però, si coltivano solo caffè, cacao, banane, riso e tabacco. “In media le forze dell’ordine sequestrano il 10% delle droghe esportate illegalmente dalla criminalità” spiega Antonio Nicaso, autore di oltre 40 libri sulla criminalità organizzata, professore alla Queen’s University in Canada, e tra i massimi esperti al mondo di ‘ndrangheta e narcos. In base alla sua stima dal marzo 2021 oltre 5.200 tonnellate di cocaina sono uscite dall’Ecuador, Paese sudamericano dove non si coltiva la foglia di coca, ma terra di passaggio dalla Colombia (dal confine Nord) e dal Perù (dal confine Sud-est), i due principali produttori al mondo. Poi, dalla zona del litorale, soprattutto dal principale porto ecuadoriano, Guayaquil, ma anche da quelli di Manta ed Esmeraldas, gli stupefacenti solcano l’Oceano Pacifico per dirigersi in Europa via Panama ed altri Paesi Centro americani e caraibici e negli Stati Uniti, via Messico. Da due anni l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, l’UNDOC, segnala l’Ecuador come il principale hub di partenza della droga al mondo ma solo l’8 agosto dello scorso anno, quando il candidato presidenziale Fernando Villavicencio fu assassinato 10 giorni prima delle elezioni, il mondo inizio a capire che a Quito c’era un problema di violenza narcos simile a quello della Colombia ai tempi di Pablo Escobar.

Narcos e politica. Non bastasse l’omicidio di Villavicencio, lo scorso dicembre è deflagrato Metastasis, il maxi-processo che indaga sulla narco politica e la narco giustizia in Ecuador e che sta evidenziando le infiltrazioni dei cartelli transnazionali ai massimi livelli a Quito. Ed è stato proprio questo processo a dare l’ultima accelerata alla violenza nello Stato sudamericano. Dopo la fuga dalla prigione di alias “Fito”, il leader dei Los Choneros, gruppo associato al cartello di Sinaloa, e poi di Fabricio Colón Pico, noto come Il Selvaggio o Comandante Pico, boss dei Los Lobos associato al cartello messicano Jalisco Nueva Generación, Noboa ha dichiarato il 9 gennaio scorso i 22 gruppi criminali narcos in guerra contro lo stato come “organizzazioni terroristiche”, mandando l’esercito nelle strade e imponendo lo status di “conflitto armato interno”. Di fatto, il presidente ha dato alle Forze Armate la libertà di usare strumenti e metodi militari. Il testo non utilizza il termine “guerra civile”, ma “conflitto armato interno” per riferirsi allo scontro tra le forze statali ed i cartelli narcos. D’ora in poi, l’esercito ecuadoriano non ha bisogno di moderare l’uso della forza e sarà in grado di agire come soldati in guerra. Funzionerà? A gennaio i morti sono scesi dai 900 di dicembre a meno di 400 mentre sono stati catturati 5.000 presunti criminali, 300 dei quali a processo per terrorismo ma la storia recente insegna che la strategia della “guerra alla droga” non risolve il problema, basti pensare al Messico dell’ex presidente Felipe Calderón o agli Stati Uniti. Inoltre, con la dichiarazione di “conflitto armato interno” diverse disposizioni del diritto internazionale sui diritti umani potrebbero perdere forza. In tempi di conflitto interno, infatti, i membri di gruppi armati organizzati diventano un bersaglio legittimo, come qualsiasi combattente in guerra. Non bastasse, a gennaio il Parlamento dell’Ecuador ha dato una copertura legale affinché questi metodi militari siano supportati dalla legge, ed evitino conseguenze legali per i comandanti militari e le autorità politiche in futuro. In sostanza, un’amnistia preventiva. Certo, il diritto di guerra impone delle restrizioni, le esecuzioni sommarie e le sparizioni forzate, così come la tortura e i maltrattamenti dei combattenti catturati, sono vietate in qualsiasi situazione e in ogni momento mentre i civili devono essere risparmiati a tutti i costi delle operazioni militari, ma anche in questo caso la storia insegna che sovente accade l’imprevedibile (basti pensare al Perù dell’ex presidente Fujimori). La Conferenza Episcopale dell’Ecuador ha emesso un comunicato urgente dal titolo “La violenza non prevarrà” ed è la speranza di tutti quelli che operano sul campo, a cominciare dai missionari.

Calma apparente.“Ora nel Paese si vive una calma strana” ha dichiarato all’Osservatore Romano a fine gennaio scorso Antonio Crameri, vescovo del vicariato apostolico di Esmeraldas. “La situazione continua a essere abbastanza critica e l’attuale calma sembra una parentesi prima di un contrattacco del lato oscuro” ha aggiunto monsignor Crameri, presidente di Caritas Ecuador, che ha aggiunto che con le misure introdotte da Noboa “si sta applicando la legge del taglione, occhio per occhio dente per dente, ma è cammino che non porta a una soluzione. Insistiamo affinché si cambi la narrativa: non serve la guerra e bisogna tracciare cammini di pace”.
Il traffico di droga e delle reti della criminalità organizzata si combina in Ecuador con l’aumento della povertà e la mancanza di opportunità. Secondo Oliver De Shutter, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema, oggi il 34% degli abitanti dell’Ecuador tra i 15 e i 24 anni vive in povertà, il 12% in più rispetto a dieci anni fa. Una situazione che spiega il reclutamento come sicari di giovani in situazioni vulnerabili che guadagnano così 200 dollari al mese, il doppio del salario minimo. Non a caso, secondo l’Unicef, negli ultimi quattro anni si è registrato un aumento del 640% del tasso di omicidi di minorenni. “Di fronte a questo, la risposta degli ultimi governi è stata quella di continuare con l’indebolimento dello Stato e gli ultimi governi non hanno saputo dare nessuna soluzione alla situazione di violenza e insicurezza che il Paese sta attraversando” spiega Andrés Chiriboga, ricercatore di Sociologia economica presso il Centro Max Planck Sciences Po di Parigi.

I potenti cartelli messicani. Ma perché L’Ecuador è stato scelto come hub dai narcos? Innanzitutto per la sua limitata estensione territoriale e l’ottima infrastruttura stradale che consente una circolazione transfrontaliera in meno di 12 ore da Colombia e Perù, Paesi produttori di coca, alla costa del Pacifico. Inoltre, il suo profilo costiero navigabile permette alle imbarcazioni di salpare da qualsiasi punto, Infine, la mancanza di un robusto controllo sui suoi territori marittimi e aerei rende più facile per gli aerei e le navi partire dai terminal senza controlli. Solo i porti di Manta e Posorja (a 120 chilometri da Guayaquil) hanno infatti scanner elettronici.
La Colombia ed il Messico sono però i due Paesi cui dobbiamo guardare per comprendere l’origine dell’attuale svolta violenta dell’Ecuador. Gli accordi di pace siglati all’Avana nel 2016, tra le FARC e lo Stato colombiano hanno infatti lasciato senza lavoro migliaia di criminali, esternalizzando a livello continentale la violenza. Uomini con una vasta esperienza nel traffico di cocaina sono rimasti disoccupati e hanno iniziato a prestare servizi al soldo dei cartelli messicani. Colombiani erano quattro anni fa i killer del presidente di Haiti Jovenel Moïse al pari dei sicari che hanno ammazzato Villavicencio. Non a caso, prima della pace dell’Avana, Quito aveva un tasso di cinque omicidi ogni 100mila abitanti, oggi salito a quasi 50 con un incremento del 1000% in sette anni, trasformando l’Ecuador nel Paese più violento dell’America latina. Inoltre, a farla da padrone nel continente sono ormai i due principali cartelli messicani, quello di Sinaloa e quello Jalisco Nueva Generación (CJNG), in guerra tra loro su scala globale. Entrambi operano senza intermediari nel principale produttore al mondo di cocaina, la Colombia. La guerra per procura scatenata dai due cartelli messicani in Ecuador ha messo in ginocchio il piccolo Paese sudamericano e il rischio ora è che i cartelli di Sinaloa e di Jalisco spostino le loro attività nel vicino Brasile, anch’esso non produttore di cocaina ma già oggi il secondo maggiore hub al mondo di droga, a cominciare dal Fentanyl.

(*) Popoli e Missione

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