Il 24 febbraio saranno 24 mesi

Sabato prossimo sarà la volta del 2° anniversario dell'invasione dell'Ucraina da parte delle truppe di Putin. Non ci vorrà molto ad arrivare al milione di vittime. Alla conferenza di pace a Tirana, manca la controparte. Non ci sarà "dialogo", come non c'è stato finora: l'unica strada che può portare alla pace non viene nemmeno intrapresa.

Un calendario spietato ci propone alla distanza esatta di quindici giorni, per tre sabati, commemorazioni di eventi tragici che qualcuno proporrebbe di dimenticare. Dopo l’Olocausto (con la data emblematica del 27 gennaio) e le foibe (con quella del 10 febbraio), sabato prossimo 24 febbraio sarà la volta del 2° anniversario dell’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe di Putin, non meno tragico con le sue centinaia di migliaia di morti. Ne parliamo stavolta in lieve anticipo, data l’incalzante attualità di tale data, anche per evitare di arrivarvi… il giorno dopo (cioè domenica 25, data del prossimo numero). A dire il vero, non si trattò di mera invasione, ma di esplicito tentativo di una totale presa del potere a Kiev da sottomettere a Mosca.
Scopo evidente, andato a vuoto per la rapida reazione dell’esercito ucraino e per la determinazione sorprendente del premier Zelensky. Scopo poi coperto volutamente da oblio per ridurre la magra figura, ripetendo comunque a memoria il ritornello che “tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale saranno raggiunti”: obiettivi, a quanto pare, alquanto elastici se si ripensa a quello piuttosto ambizioso e pigliatutto della notte del 24 febbraio. In 24 mesi di guerra gli obiettivi sono cambiati in vario modo, ma ora la Russia pensa di accontentarsi di buona parte del Donbass, tanto da insistere anche con Whasington sull’opportunità di addivenire ad accordi – esternazione poi ufficialmente smentita, ma sostanzialmente confermata con l’affermazione più nobile secondo cui (dice il ministro degli esteri Lavrov) Mosca è sempre disposta a una soluzione politica e diplomatica purché si rispettino i suoi interessi e si tenga conto dell’attuale situazione del Paese… Qualcosa va cambiando anche in Russia e in Ucraina.
L’ultima novità del codice di guerra del Cremlino è la confisca dei beni (che si aggiunge alla condanna già varata dei 15 anni di reclusione) per chi critica il conflitto in corso. Qualche timida protesta ogni tanto si leva dalla gente o da talune frange, ma le imminenti elezioni presidenziali impongono l’assoluta deferenza verso il Capo. In Ucraina c’è stata addirittura la sostituzione del capo di stato maggiore delle forze armate, Valery Zaluzhny – il beniamino dei soldati che gli hanno obbedito con fiducia per quasi due anni – con il capo dell’esercito Oleksandr Syrskyi che ha già ribadito comunque l’obiettivo prefisso: tornare ai confini del 1991 pur mettendo in atto per ora una tattica difensiva puntando a infliggere maggiori perdite al nemico risparmiando i propri soldati. Alle difficoltà sul terreno Kiev supplisce in parte con le insidiose azioni marine che danneggiano gravemente la flotta russa nel mar Nero. Ma quello che serve all’Ucraina sono gli aiuti dall’estero. Se la Ue è riuscita a sbloccare i 50 miliardi, gli USA non hanno ancora approvato i loro prossimi 60, che dopo l’avallo del Senato, devono ora passare (con molta più fatica) alla Camera. Un fiume di miliardi che si aggiunge agli altri gettati nel campo di battaglia dall’una e dall’altra parte con l’unico risultato, per ora, di una interminabile carneficina e di un’inesorabile distruzione. Non ci vorrà molto ad arrivare al milione di vittime, già raggiunto peraltro se ai morti si aggiungono i feriti. Una guerra “ibrida” – che ai mezzi più moderni unisce le tattiche più vetuste (trincee comprese) – di cui non s’intravvede la fine. Per il 28 febbraio è annunciata una conferenza di pace a Tirana, dove arriverà anche il premier ucraino; ma – come nelle altre circostanze – manca la controparte. Non ci sarà “dialogo”, come non c’è stato finora: l’unica strada che può portare alla pace non viene nemmeno intrapresa.
Del resto, anche dove si tenta continuamente di dialogare – nel conflitto israelo-palestinese – i risultati, per ora, non sono migliori. Infatti, per dialogare davvero, occorre smettere le vesti del “nemico” per indossare i panni più modesti del compromesso, nel necessario rispetto dei morti (troppi) e dei vivi (prostrati).

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