Storie di pace a confronto. Card. Zuppi: “Sono le mille, incalcolabili sfumature del bene e dell’amore”

Testimoni e operatori di pace in varie parti del mondo e in diversi conflitti ancora in corso. Si sono dati appuntamento a Roma per il convegno dal titolo “A 60 anni dalla Pacem in terris: non c’è pace senza perdono” organizzato da Caritas italiana, Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei, Azione cattolica italiana, Acli, Agesci, Cnal, Frati francescani d'Assisi, Movimento Focolari Italia e Pax Christi. “La pace non è mai un protagonismo di qualcuno”, ha osservato il presidente della Conferenza episcopale italiana

“La guerra porta divisione, malattia, odio, muri, inimicizie. Per dire pace abbiamo bisogno di un intero vocabolario che fa emergere le mille, incalcolabili sfumature del bene e dell’amore”. E, “se questo è vero, la pace non è solo compito della politica ma si costruisce e si sperimenta nei campi quotidiani della famiglia, del lavoro, dell’economia, della società”. Con queste parole del card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, si è aperto ieri sera a Roma, nella sala della Protomoteca del Campidoglio, l’incontro – dal titolo “A 60 anni dalla Pacem in terris: non c’è pace senza perdono” – organizzato da Caritas italiana, Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei, Azione cattolica italiana, Acli, Agesci, Cnal, Frati francescani d’Assisi, Movimento Focolari Italia e Pax Christi. Hanno preso la parola testimoni e operatori di pace in varie parti del mondo e in diversi conflitti ancora in corso. Ad ascoltarli una platea gremita, soprattutto giovani, anche alcuni studenti. L’incontro di Roma è però solo la prima tappa di un cammino che avrà al centro la 56ª Marcia nazionale per la pace che si terrà a Gorizia il 31 dicembre e proseguirà a livello locale con iniziative, in costante aggiornamento, che verranno promosse nelle diocesi dal “popolo della pace” con preghiere, marce, incontri culturali, momenti di animazione. “La pace non è mai un protagonismo di qualcuno”, ha concluso Zuppi. “Queste esperienze molto diverse tra di loro dimostrano come la pace raccolga una infinità di aspetti, di itinerari, percorsi, storie e situazioni”. Perché se “la pace è il destino”, come tale “richiede il coinvolgimento, il lavoro e lo sforzo di ognuno e di tutti”.

(Foto sir)

La prima storia è quella di Daoud Nassar, palestinese cristiano, fondatore del progetto “Tent of Nations”. Per motivi di sicurezza, Nassar non ha potuto partecipare al convegno come relatore. È stato rappresentato da Laura Munari, referente italiana di Tent of Nations. Siamo in Cisgiordania, nel West Bank in Area C, su una collina situata tra Betlemme ed Hebron. Attorniata dagli insediamenti israeliani e dal muro di separazione, si trova la fattoria della famiglia Nassar, agricoltori cristiani. Più volte aggrediti e attaccati, la risposta dei Nassar all’ingiustizia dell’occupazione non è la violenza. Il lavoro dei campi, la fattoria didattica, il Summer camp che ogni anno viene proposta ai ragazzi, l’accoglienza dei pellegrini rispondono ad un unico slogan: “We refuse to be enemies” (Ci rifiutiamo di essere nemici). Lo fanno anche oggi. Nonostante dallo scorso 7 ottobre la fattoria è vuota, i volontari sono tornati a casa, animali e piantagioni non stanno ricevendo nutrimento, la vendemmia e la raccolta delle olive si sono interrotte. “Questo è il tempo dell’attesa, della preghiera e della speranza”, scrivono in un messaggio che campeggia sul sito internet del progetto. “La vendetta non ha senso”. “La realizzazione di questo può avvenire solo se il Diritto internazionale viene rispettato, anche con la mediazione costruttiva dei Paesi politicamente ed economicamente coinvolti. I miracoli accadono”.

(Foto Sir)

Ha portato la sua testimonianza anche Giovanni Bachelet, figlio del giurista Vittorio Bachelet, assassinato il 12 febbraio 1980 dalle Brigate Rosse. Il giorno del funerale di suo papà, il giovane Giovanni ebbe il coraggio di pregare così: “Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri”. Ha scelto di non rimanere vittima dell’odio anche Sharizan Shinkuba, ex studentessa della “World House” di Rondine Città della pace, proveniente dall’ Abkhazia. È un contesto diverso ma la dinamica è la stessa, a prova che la parola pace – come diceva il card. Zuppi – si declina in infiniti modi.  Siamo nella zona del Sud Caucaso, teatro di una guerra scoppiata con la Georgia nel 1992 e i cui effetti sono ancora vivi e presenti nella società. “Quando sono nata, per me il nemico già esisteva”, ha detto Sharizan raccontando la sua storia. “Ho imparato presto a capire che l’odio era per noi un senso di appartenenza, un sentimento che ci univa tutti”. Poi con il tempo, la ragazza ha cominciato a porsi degli interrogativi, a domandarsi perché e se volesse anche lei continuare ad odiare. Poi l’incontro con Rondine che – ha raccontato – “mi ha regalato un fratello. Era un ragazzo georgiano. Ci siamo ritrovati a condividere gli stessi spazi che ci hanno obbligato a confrontare le nostre storie e i nostri dolori. Una esperienza che mi ha aiutato a capire che il mio dolore non era diverso dal suo”.

Silvia De Munari è appena arrivata dalla Colombia, dove da 8 anni vive. È volontaria del corpo civile di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII. Il Paese da 60 anni vive in uno stato di guerra civile che ha seminato centinaia di migliaia di morti, desaparecidos, 8 milioni di sfollati interni. In questo contesto di violenza, nel 1997 nasce la “Comunità di Pace” di San José de Apartadò dove i contadini che la abitano e la animano (circa 500) rifiutano l’uso delle armi e aderiscono ad una economia alternativa che vieta l’uso delle armi e la coltivazione della coca. Una scelta pagata anche con il sangue. Silvia ha raccontato la sua vita di operatrice. Ha spiegato anche che ci sono regole di sicurezza da seguire, come indossare magliette arancioni per farsi riconoscere o comunicare la propria presenza alle forze armate. Questo “camminare” a fianco dei contadini locali ha permesso ad oggi ai volontari di “salvare vite umane”. E ha aggiunto: “Ho l’onore di vivere con queste persone, uomini e donne che hanno il coraggio di resistere al male della violenza, di non rimanere coinvolte nel conflitto ma di voler costruire relazioni positive”.

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