Haiti. Mons. Mésidor (Port-au-Prince): “Un Paese sull’orlo dell’abisso. La Chiesa condivide il destino della popolazione”

“Grazie per darmi la possibilità di dire al mondo che Haiti è sull'orlo dell’abisso e che non si può restare a braccia conserte!”. Mons. Max Leroy Mésidor, arcivescovo metropolita di Port-au-Prince, la capitale del Paese, lancia attraverso questa intervista al Sir, l’ennesimo appello perché la popolazione haitiana, sempre più gettata nella disperazione, riceva un aiuto tangibile dalla comunità internazionale: “È molto difficile continuare la nostra opera di evangelizzazione, ma la Chiesa è ancora in piedi”

(Foto CNA)

“Grazie per darmi la possibilità di dire al mondo che Haiti è sull’orlo dell’abisso e che non si può restare a braccia conserte!”. Mons. Max Leroy Mésidor, arcivescovo metropolita di Port-au-Prince, la capitale del Paese, lancia attraverso questa intervista al Sir, l’ennesimo appello perché la popolazione haitiana, sempre più gettata nella disperazione, riceva un aiuto tangibile dalla comunità internazionale. “È chiaro che da soli non possiamo combattere il male che ha messo tante radici”, dice l’arcivescovo senza mezzi termini, descrivendo una situazione che nel Paese, e soprattutto nella capitale e i suoi sobborghi, è completamente fuori controllo, in cui “lo Stato è presente solo di nome”.

A dirlo sono le cifre diffuse nei giorni scorsi dalle Nazioni Unite, nel periodico rapporto del loro ufficio integrato a Port-au-Prince. Nel secondo trimestre del 2023 la violenza ad Haiti ha subito un’ulteriore crescita del 14% rispetto al primo trimestre, con 1.860 persone uccise, ferite o rapite. L’aumento della violenza delle bande resta soprattutto concentrato nella capitale Port-au-Prince e nel suo hinterland, con quasi 300 persone uccise o ferite dai cecchini nel quartiere povero di Cité Soleil.

Tra le persone uccise da aprile a giugno, vanno registrati 13 agenti di polizia e più di 460 membri di bande, la maggior parte dei quali sono stati linciati, oppure uccisi in sparatorie con la polizia. Almeno 230 presunti membri di bande criminali sono stati uccisi a seguito della rivolta civile, soprannominata “Bwa kale”, una sorta di contro-reazione dal basso contro le bande criminali, attraverso metodi violenti. Altre 298 persone sono state rapite nello stesso periodo, in questo caso con un calo del 24% rispetto al trimestre precedente. In tale contesto, l’ambasciata degli Stati Uniti ha invitato i propri connazionali a lasciare il Paese. Le prospettive di intervento di una forza di polizia internazionale, pur caldeggiata dall’Onu, stentano a decollare, anche se qualche settimana fa si era parlato di un contingente guidato dal Kenya. Ma anche questa iniziativa si è impantanata, in una serie di veti incrociati.

Eccellenza, la situazione a Port-au-Prince sembra essere sempre più fuori controllo. Può descriverla in poche parole?
L’insicurezza imperversa a Port-au-Prince da più di due anni. Ma negli ultimi mesi la situazione è notevolmente peggiorata. Le bande controllano più di tre quarti del territorio della capitale. Senza il minimo rischio di essere interrogate, rivendicano la responsabilità dei loro crimini abominevoli: furti, stupri, saccheggi, incendi dolosi, rapimenti e omicidi. Moltiplicano le dimostrazioni di forza, occupando ogni giorno nuove aree sotto lo sguardo impassibile e indifferente delle autorità. Lo Stato esiste solo di nome. La gente è abbandonata a se stessa, o peggio, ai banditi. Come diretta conseguenza, luoghi pubblici come scuole e centri sportivi sono invasi da persone costrette a fuggire in fretta dalle loro case, a causa delle bande che impongono le loro leggi ovunque.

La gente è disperata? Qual è lo stato d’animo della gente? Il movimento Bwa kale è comprensibile e giustificabile?
Gran parte della popolazione sta sprofondando nella disperazione. Chi può si rifugia negli Stati Uniti, o in altri Paesi dell’America Latina. Lo scorso aprile, gli abitanti di alcuni quartieri hanno iniziato una rinascita attraverso il movimento “Bwa kale”, eliminando fisicamente coloro che sospettavano essere assassini o complici. Questo movimento ha avuto un certo effetto, in quanto i rapimenti sono diminuiti notevolmente per un mese. Ma ha presto mostrato i suoi limiti, dato che le bande sono diventate più attive e più crudeli da giugno in poi. D’altra parte, non possiamo incoraggiare una giustizia affrettata per la popolazione sofferente, anche se la comprendiamo.
Spetta alle forze dell’ordine garantire la sicurezza della vita e della proprietà. Purtroppo, finché le autorità mostreranno una tale passività di fronte alla violenza crudele e indiscriminata delle bande, la popolazione cercherà di farsi giustizia da sola.

La Chiesa riesce in qualche modo a portare avanti il suo lavoro e la sua evangelizzazione? Come e con quali priorità?
La Chiesa condivide il destino della popolazione; è anche particolarmente esposta. Sacerdoti e religiosi sono stati rapiti e poi rilasciati per riscatto. Come sapete, una religiosa italiana, suor Luisa Dell’Orto, è stata freddamente giustiziata in pieno giorno, lo scorso anno. Le parrocchie sono state chiuse, così come il nostro centro di formazione pastorale. La cattedrale è stata parzialmente bruciata da un gruppo armato nel luglio 2022.

Come riesce lei stesso a essere presente tra i fedeli in un contesto così pericoloso?
I miei movimenti sono molto limitati. Posso visitare solo una parte dell’arcidiocesi. I ritiri, gli incontri pastorali e le sessioni di formazione catechistica e liturgica, come quelle tenute la scorsa settimana, vengono organizzati in due o tre luoghi distinti perché, in diversi punti, la strada principale è occupata da banditi pesantemente armati. È molto difficile continuare la nostra opera di evangelizzazione, ma la Chiesa è ancora in piedi. Sta accompagnando i fedeli per quanto possibile.

Cosa chiedete al mondo, alle istituzioni internazionali e all’Europa?
È chiaro che da soli non possiamo combattere questo male che ha messo tante radici nel Paese. Come abbiamo scritto noi della Conferenza dei vescovi cattolici di Haiti, lo scorso marzo, “in nome della solidarietà internazionale e della fratellanza universale, le Istituzioni internazionali hanno il dovere di aiutarci in un momento in cui un intero popolo è esposto al terrore delle bande. È giunto il momento di agire concretamente”.

Una forza internazionale potrebbe essere una soluzione?
La stragrande maggioranza dei miei connazionali si aspetta che la comunità internazionale fornisca un sostegno solido ed efficace alla Polizia nazionale, in termini di uomini e attrezzature, per porre fine alla violenza delle bande e consentire al Paese di tornare alla stabilità democratica e istituzionale. Questo sostegno sarebbe un primo e decisivo passo. Ma abbiamo bisogno anche di qualcos’altro: di un ampio consenso tra gli attori politici, tra le associazioni imprenditoriali e i sindacati. Noi haitiani dobbiamo essere in grado di parlarci con sincerità, senza infingimenti o ipocrisie, e capire che c’è un interesse superiore da salvaguardare: il futuro del nostro Paese. Che Dio ci aiuti!

*giornalista de “La vita del popolo”

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