Villaggio incendiato in Cile. Mons. Concha Cayuqueo: “L’unica strada praticabile è il dialogo”

Una scena così, in Araucanía, la regione del Cile che pure è attraversata dal cosiddetto “conflitto mapuche”, non l’avevano mai vista. È accaduto mercoledì 2 agosto: un’intera “cittadella” dei servizi, nel villaggio agricolo di di Aniñir, nel municipio di Traiguén, a cinquanta chilometri dal capoluogo Temuco, incendiata nel giro di un’ora

Una scena così, in Araucanía, la regione del Cile che pure è attraversata dal cosiddetto “conflitto mapuche”, non l’avevano mai vista. È accaduto mercoledì 2 agosto, quando un’intera “cittadella” dei servizi, nel villaggio agricolo di di Aniñir, nel municipio di Traiguén, a cinquanta chilometri dal capoluogo Temuco, incendiata nel giro di un’ora: scuola di base, ufficio postale, centro sociale, farmacia, ambulatorio medico, ambulanza e cappella (la ventesima chiesa incendiata a partire dal 2014 nella diocesi di Temuco, più o meno la cinquantesima in tutta la regione, nello stesso periodo). Tutto raso al suolo, in pochissimo tempo. Un paramedico che dormiva nella struttura è salvo per miracolo. L’escalation del conflitto nell’area ha costretto il governo di Boric a decretare lo stato di emergenza costituzionale per le forze armate per proteggere i territori colpiti dalla violenza.

Quando, il giorno dopo, il vescovo di Temuco, mons. Jorge Enrique Concha Cayuqueo, come documentano le foto che lo stesso presule ci ha inviato, ha visitato la zona, ha trovato una totale desolazione, non solo logistica, ma nei cuori delle persone, degli abitanti locali, in gran parte contadini. In gran parte, ecco un altro fatto sorprendente, indigeni mapuche. Una spirale di violenza assurda, che arriva ad avere come vittime proprio coloro che, in origine, si volevano difendere.

Come si accennava, l’Araucanía è da decenni teatro di attentati e violenze. Storicamente, la regione fu come il far west, vennero coloni da altre zone del Cile e dall’Europa, soprattutto dalla Germania. Occuparono le terre dei nativi, che furono confinati nelle riserve. Da qui un’atavica voglia di riscatto, rivendicazioni che per troppo tempo non sono state ascoltate. Non erano mancati, negli ultimi anni, dei segni di speranza: la visita di Papa Francesco, nel gennaio 2018, proprio a Temuco: l’elezione di un’indigena mapuche, Elisa Loncón, alla presidenza dell’Assemblea costituente. La nuova Carta, però, è stata poi bocciata dalla popolazione cilena. L’attuale presidente Gabriel Boric ha, inizialmente, cercato di evitare la militarizzazione della regione. Ma la violenza (che peraltro è aumentata a dismisura in tutto il Paese e in particolare nella zona metropolitana di Santiago) è dilagata. Il Sir ha intervistato il vescovo Jorge Concha, egli stesso di origine mapuche, dopo la sua visita a Traiguén.

Che situazione ha trovato nel villaggio incendiato?
Si è trattato di un episodio impressionante. Tutto è stato incendiato nel giro di un’ora, a essere coinvolta una popolazione contadina, in maggioranza mapuche. Un episodio che si aggiunge ai molti altri di violenza che si sono verificati, anche negli ultimi giorni, per esempio a Ercilla sono stati attaccati i carabinieri. La gente è terrorizzata e scoraggiata, perché non sembrano esserci vie d’uscita rispetto a questa spirale di violenza.

Molti episodi, soprattutto incendi, riguardano le chiese. Per quale motivo?
È così. A partire dal 2014, nella diocesi di Temuco, sono state incendiate venti cappelle e chiese. Nella regione c’è un’altra diocesi, quella di Villarica, dove si sono verificati numerosi episodi. Sono una cinquantina i luoghi sacri cattolici bruciati, sempre a partire dal 2014. Oltre a questi, bisogna aggiungere le chiese evangeliche, ugualmente oggetto di simili attentati. Va tenuto presente che in Cile le cappelle sono luoghi con una valenza comunitaria e sociale. La gente si riunisce o converge in caso di calamità, come terremoti, incendi o alluvioni, che nel nostro Paese sono frequenti. Le chiese vengono prese di mira, certamente, anche per motivi di carattere ideologico. Nel passato, oggettivamente, la Chiesa ha fatto parte di un sistema che ha occupato le terre degli abitanti nativi. Ma bisogna dire che, accanto a queste motivazioni, si affianca una violenza cieca e terrorista, che vuole suscitare terrore e creare un clima di continua tensione.

Quindi, di fronte alla violenza di oggi, che colpisce per prima la popolazione indigena, si può parlare ancora di atti legati alla questione mapuche o si tratta di gesti violenti senza una particolare matrice ideologica?
Direi che le due cose si sovrappongono e non è facile distinguere i due aspetti. Esiste certamente una questione che è irrisolta da secoli, quella dei diritti della popolazione originaria, che i dirigenti politici che si sono susseguiti hanno via via rinviato. In alcuni casi, le rivendicazioni indigene sono sfociate e sfociano in atti violenti. Sempre più spesso, la violenza colpisce la popolazione in genere, l’intera società, soprattutto nelle zone agricole, che si tratti di indigeni o no. Indubbiamente, negli ultimi anni è emersa una violenza più forte, da parte di bande criminali che spesso sono legate a altri interessi, in particolare il narcotraffico. A prima vista, questo secondo genere di violenza va prendendo maggiore spazio, anche se, come dicevo, c’è sovrapposizione tra le due matrici. Di sicuro, gesti come quelli accaduti a inizio agosto danneggiano tutta la popolazione. Gli indigeni, in particolare, in maggioranza sono molto addolorati per questa situazione. Nel villaggio agricolo incendiato che ho visitato, ho trovato grande desolazione e tristezza, ma anche voglia di andare avanti, di ripartire, soprattutto da parte delle donne, che stavano fin da subito cercando di pulire i luoghi, di riordinarli.

Resta il fatto che pare sempre più difficile trovare vie di soluzione. Cosa si sente di chiedere alla politica?
Viviamo un tempo di grande incertezza e di sfiducia generalizzata e trasversale, che rischia di trascinare con sé la stessa democrazia. Si vede una prevalente incapacità a reagire, cui fa da contraltare una sempre maggiore arroganza e spavalderia dei gruppi violenti. Non è facile trovare una soluzione, c’è tantissima frustrazione. Non resta che animare alla speranza, ed è quello che cerchiamo di fare anche noi come Chiesa. Ma la nostra unica “arma” è la parola. Eppure, la nostra democrazia deve trovare il modo di reagire, se non vuole essa stessa essere travolta. Occorre un maggior sforzo da parte di tutti, a partire dalla politica. E tanta capacità di dialogo, di ascolto, di disponibilità a rinunciare a qualcosa senza trincerarsi nelle ideologie. L’unica strada praticabile, come non ci stanchiamo di ripetere, è il dialogo.

 

(*) giornalista de “La vita del popolo”

 

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