Madre e figlia morte nel deserto: dove eravamo noi quando agonizzavano?

Lasciamo madre e figlia senza nome, così possiamo scrivere su quella sabbia i nostri nomi. Con grande vergogna. Arrestarci però alla vergogna è anche comodo e, forse, fresco. Dobbiamo agire, intervenire, ognuno a proprio modo, ciascuno al suo posto. Monaci e monache intercedendo. Preti e consacrati gridando il Vangelo. Laici e laiche prestando mani e cuore perché la vergogna non si ripeta

(Foto Ahmad Khalifa)

Siamo tutti o quasi tutti, alle prese con un’estate infuocata e sappiamo bene che cosa significhi soffrire il caldo e la sete. Abbiamo però a portata di mano bibite, gelati, ghiaccio. Insomma… ci difendiamo.
È difficile sostare sulla fotografia della madre e della sua bambina non distese a prendere il sole sulla spiaggia ma morte, sfinite, letteralmente abbandonate dalle forze sulla sabbia ustionante di un deserto che non perdona.
Non si tratta di un incidente, di un quid imprevedibile che, una volta capitato o sopravvenuto, è indipendente dal proprio o altrui volere.

È un caso in cui noi, persone, dobbiamo vergognarci di queste morti che, magari, non sono le sole e non lo saranno le sole, perché dipendono da noi, dal nostro volere.

Si può abbandonare esseri umani, come noi bisognosi di cibo, di acqua, di riparo diurno e notturno, soprattutto bisognosi di accoglienza?
Accoglienza semplice, non sofisticata ma quella che può guardare negli occhi la persona che hai davanti.
In quella fotografia della vergogna, un aspetto fa tremare lo sguardo: non si vede il volto della madre e della figlia, cadaveri.
Indubbiamente chi, personalmente, o in gruppo si implica nei traffici dei migranti, non batterà ciglio, con una spallucciata sarà capace di dire: toh! Due di meno!
Se poi hanno già pagato e non devono saldare il conto giunte a destinazione, non rientrano nemmeno nella lista da controllare.
Perché madre e figlia hanno lasciato la loro casa (se l’avevano), il loro paese?
Nessuno ignora che cosa significhi deserto: dune, sabbia, caldo torrido implacabile, notti gelide, mancanza di cibo e di acqua.
Soprattutto alla fine della traversata sabbiosa, quale altra sabbia ingurgiterà chi sta per attraversarlo?
Non per essere macabri e indurre al ribrezzo ma è doveroso chiederselo: come sono morte, quale la loro agonia?
Una donna e una ragazzina, senza nome, senza provenienza, senza volto.
Volto riverso nella sabbia, affondato nel nulla.

Sappiamo dai Maestri d’Israele che il deserto ha portato a pienezza il suo compito quando Mosè, proprio nel deserto, è diventato un interlocutore dell’Altissimo.
Sappiamo che Gesù Cristo nel deserto ha reagito al Nemico e ha fatto suo il progetto di salvezza dell’Altissimo.
Oggi corriamo il rischio di vanificare la stessa irruzione dell’Altissimo nel popolo di Israele e l’annuncio di salvezza di Gesù Cristo.

Il deserto con il suo richiamo orante lo abbiamo ridotto a sventura, a distruzione.

Non dobbiamo chiederci dove mai era l’Altissimo mentre madre e figlia agonizzavano. L’interrogativo è molto più tagliente: io e noi dove eravamo quando madre e figlia agonizzavano?

In spiaggia? In un prato di montagna? In una casa con aria condizionata e il frigorifero ben ricolmo di bibite?
Lasciamo madre e figlia senza nome, così possiamo scrivere su quella sabbia i nostri nomi. Con grande vergogna.
Arrestarci però alla vergogna è anche comodo e, forse, fresco.
Dobbiamo agire, intervenire, ognuno a proprio modo, ciascuno al suo posto.
Monaci e monache intercedendo. Preti e consacrati gridando il Vangelo. Laici e laiche prestando mani e cuore perché la vergogna non si ripeta.

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