Geopolitica. La visita di Xi e l’Occidente, sguardi divergenti sull’ordine mondiale

Ora che la visita di Xi Jinping a Mosca si è conclusa risulterà forse palese che essa non ha mai avuto l’Ucraina al vertice dell’agenda. Scegliendo la capitale russa come prima tappa degli incontri esteri all’indomani del terzo mandato a capo della Repubblica popolare, il segretario del Pcc ha rimarcato più volte il termine “nuova era”: per presentare la Cina come promotrice e utile moderatrice di un ordine multipolare non turbolento

(Foto: ANSA/SIR)

Ora che la visita di Xi Jinping a Mosca si è conclusa risulterà forse palese che essa non ha mai avuto l’Ucraina al vertice dell’agenda.Scegliendo la capitale russa come prima tappa degli incontri esteri all’indomani del terzo mandato a capo della Repubblica popolare, il segretario del Pcc ha rimarcato più volte il termine “nuova era”: per presentare la Cina come promotrice e utile moderatrice di un ordine multipolare non turbolento, da sottrarre a destabilizzazioni che – come confermato dal Wto – rallentano lo sviluppo mondiale e moltiplicano le crisi economiche e umanitarie. Il Dragone stesso prospera senza barriere protezionistiche, frammentazioni delle filiere, blindature regionalizzate degli scambi imposte dai soggetti egemoni. Xi ha scelto Mosca quale vetrina sotto i riflettori per mostrare al mondo quanto sia profittevole avere Pechino come partner privilegiato, in risposta alle misure con cui gli Usa – da Trump a Biden – si esibiscono in un’affannosa rincorsa all’ascesa cinese per frenarne i ritmi e isolarne le opportunità di diversificazione.
Gli 80 progetti siglati con Putin lo dimostrano: il gasdotto siberiano, la rotta artica, i trasferimenti in Russia di aziende cinesi in luogo di quelle occidentali e molto altro, con proiezione al 2030, prossima la soglia dei 200 miliardi di dollari in volume di scambi. E ancora: l’intersezione tra la Nuova Via della Seta e la tratta Nord-Sud da San Pietroburgo a Mumbai, tale da aggirare l’“occidentalizzato” Canale di Suez per i traffici di interesse asiatico; l’introduzione dello yuan in luogo del dollaro per le transazioni tra Mosca e le economie africane, asiatiche e sudamericane. Ma anche l’istituzionalizzazione di un raccordo securitario per il contrasto alle sobillazioni interne per mano di agenti esteri: prima dimostrazione della ratio regionalizzata della collaborazione multipolare del Piano di sicurezza globale lanciato da Pechino e che Putin, negli stessi giorni, ha provveduto a sponsorizzare, trovando il tempo per presiedere la Conferenza Russia-Africa per la Cooperazione economica e la Sicurezza con oltre 40 rappresentanti di governo del Continente nero. A fargli eco la diplomazia cinese sulla coerente e non più doppiopesistica applicazione della Carta Onu in tema di sovranità, reciprocità e coesistenza paritetica.
Il dossier ucraino, nelle parole di Pechino, è rimasto sullo sfondo, menzionato come caso da ricondurre metodologicamente al suo Piano di sicurezza globale, cui la Cina ha rinviato anche nell’esibire il recente successo della propria mediazione nella storica distensione tra Iran e Arabia Saudita.
Lo stile ostentatamente disteso e proattivo delle movenze cinesi nella trasferta russa contrasta con l’agitazione reattiva dell’Occidente nell’anticiparla e accompagnarla, con sguardo fisso sul quadrante ucraino. Il New York Times ha pubblicato una nuova analisi sull’insostenibilità del ritmo di consumo del munizionamento fornito a Kiev, laddove il Washington Post conteggia l’esaurimento di quasi tutti gli ufficiali ucraini addestrati dall’Occidente negli ultimi 9 anni, mentre alcune ong scandinave per i diritti umani censiscono decine di migliaia di tentativi di espatrio clandestino dall’Ucraina per evitare il reclutamento forzoso. In questa cornice, Washington si è preoccupata di scongiurare la possibilità per Pechino di intestarsi il merito di una tregua, capace di indurre Zelensky nella tentazione di una interlocuzione telefonica con Xi. Così Blinken è tornato a minacciare la Cina, laddove fornisse armi, e assieme a Kirby ha definito irricevibile un’eventuale proposta di armistizio a esito della visita, contraddicendo il previgente postulato per cui, lo scorso anno, si rimetteva alla sovranità di Kiev il diritto di scegliere i termini per il cessate il fuoco. Ciò in fondo è servito a Putin per togliersi dall’imbarazzo di entrare nel merito del cosiddetto “piano di pace” in 12 punti diramato da Pechino a febbraio, che pure contiene qualcosa di poco digeribile per Mosca (il rispetto dell’integrità territoriale altrui). E se è la Casa Bianca a censurare preventivamente la parola “armistizio”, certo il Cremlino non si dispera, avendo puntato sul logoramento per sfinire in uno l’esercito ucraino e la capacità di supporto atlantica.A ridosso della visita moscovita, il procuratore inglese Khan della Corte penale internazionale ha spiccato un mandato di cattura a carico di Putin: sufficiente a Blinken per delegittimare l’abbraccio di Xi con l’incriminato (per deportazione di bambini anziché per aggressione militare), nonostante l’inefficacia del provvedimento di una Corte la cui giurisdizione, per ovvie ragioni, non viene riconosciuta da Paesi come Russia, Cina, Israele, Ucraina e Usa.
Nel mentre Washington ha stanziato altri 350 milioni di dollari per le forniture militari a Kiev, in parallelo con la European Peace di Facility che a Bruxelles ha sbloccato una partita di un milione di munizioni per i prossimi 12 mesi e un miliardo di euro in appalti per la produzione di armi da inviare.
Negli stessi giorni, il Cremlino si è curato di denunciare il sorvolo di due bombardieri B-52 statunitensi sui confini baltici della Russia; di ringhiare contro l’escalation annunciata dal governo di Londra con l’ipotesi di spedire proiettili a uranio impoverito, ricordandone gli effetti dei bombardamenti sulla salute e sull’ambiente in Iraq, Serbia, Kosovo e Bosnia; di minacciare lo scontro diretto dopo che l’ambasciatore polacco a Parigi ha previsto l’ingresso delle truppe di Varsavia in Donbass se l’esercito ucraino non riuscirà a prevalere. E giacché Mosca sta a Kiev come Pechino sta a Tokyo, si comprende anche la concomitanza dell’improvvisa visita del premier giapponese a Zelensky.
Tanto basta per ricavare da questi giorni l’immagine di sguardi divergenti, quanto gli obiettivi delle superpotenze implicate: troppo “alti” e strategicamente ampi per fissare gli occhi su una soluzione immediata e reale al dramma degli ucraini.

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