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Eritrea, violenze e arresti. Il regime di Afewerki attacca anche la libertà di religione

Il vescovo cattolico Hagos e due sacerdoti sono finiti in cella senza alcun motivo. Ancora un caso di libertà violate e di violenza di Stato. Il Paese africano è nelle mani del dittatore da quasi trent'anni. L'Onu ha denunciato le atrocità che avvengono nel silenzio della Comunità internazionale. Le testimonianze del giornalista Emilio Drudi, dell'attività Siid Negash e del missionario Mussie Zerai

Fikremariam Hagos, il vescovo arrestato dal regime in Eritrea (foto catholicnewsagency.com)

Nell’Eritrea di Isaias Afewerki, al potere dal 1993, la repressione delle libertà civili e la carcerazione arbitraria dei dissidenti (compresa la loro sparizione dal Paese) è una realtà pressoché quotidiana. Nelle carceri eritree giacciono e muoiono da anni migliaia di persone, compresi studenti, disertori, obiettori di coscienza ed ex eroi dell’indipendenza. Ma l’arresto di un vescovo cattolico di Segheneity, Fikremariam Hagos, prelevato dalle forze dell’ordine il 15 ottobre scorso all’aeroporto internazionale di Asmara, è una “preoccupante novità”. A parlare con noi è Emilio Drudi, giornalista e scrittore, autore di saggi sul Corno d’Africa e le migrazioni, come “Una storia eritrea, Beyan, Adam, Amr”.
Assieme al vescovo Hagos sono stati arrestati due sacerdoti: Abba Mihretab Stefanos, parroco di San Michele a Segheneity e Abba Abraham della Società dei Cappuccini. “Le poche voci che osano sollevare un dissenso, sia pur rispettando le autorità in Eritrea, come appunto la Chiesa cattolica o la scuola islamica di Asmara, vengono messe a tacere”, dice Drudi. “Ma la cosa ancora più preoccupante è che stavolta il vescovo non è stato posto agli arresti domiciliari, ma portato direttamente in carcere, ed è la prima volta che questo accade”. Lo studioso racconta che “tempo fa un sacerdote è morto in detenzione, sebbene fosse ai domiciliari. Ma nel mirino non sono solo i cattolici in Eritrea: anche il fondatore della Chiesa islamica di Asmara che era una voce critica contro il regime è stato silenziato”.

Manifestazione della diaspora eritrea a Roma (Foto Popoli e Missione)

A far notizia due anni fu la ritorsione del regime di Afewerki nei confronti delle opere della Chiesa cattolica: 22 ospedali chiusi, le strutture sequestrate dallo Stato, gli ammalati sottratti alle cure. Poi è stata la volta di 50 scuole e 100 asili gestiti dalla chiesa locale. “Hanno iniziato chiudendo i servizi della Chiesa e adesso vanno avanti chiudendo le bocche”, dice Siid Negash, attivista eritreo della diaspora in Italia, esponente del Coordinamento Eritrea democratica.
La situazione interna alla ex colonia italiana è oggi decisamente molto tesa: “un intero Paese è militarizzato e in guerra permanente con se stesso”, aggiunge Drudi. Il servizio militare obbligatorio è esteso all’intera cittadinanza di sesso maschile e non ha limiti temporali. “L’economia di guerra ha impoverito e ridotto alla miseria gli eritrei”, spiega Siid. “Anziché pensare ad investire nell’istruzione e in attività produttive, il regime investe nella guerra: ed è questa che lo tiene in piedi”.
Le prime “rivelazioni” internazionali sulle atrocità di Afewerki arrivarono il 26 giugno 2015: nelle 484 pagine scioccanti del “Report of the commission of inquiry on human rights in Eritrea” delle Nazioni Unite, si alternano testimonianze, disegni delle torture subite (che faranno il giro del web) e analisi di esperti della Commissione d’inchiesta sui diritti umani.

L’accusa al regime è di crimini contro l’umanità.

Il coinvolgimento odierno di Afewerki nel conflitto ancora in corso tra l’Etiopia di Aby Ahmed e il Tigray separatista guidato dal Tplf, “è una verità inconfutabile”, denunciano gli esponenti del Coordinamento Eritrea democratica. “Il regime vuole cancellare il governo tigrino”, dicono.
“Da quel che so il vescovo Fikremariam Hagos aveva solo invitato i fedeli a non acquistare i beni sequestrati al Tigray, la regione separatista che da due anni subisce una guerra spietata. E questo la dice lunga sulla posizione di Asmara rispetto al Tigray”, aggiunge Drudi. “Io credo che la firma del trattato di pace con l’Etiopia di Aby Ahmed nel 2018 non fosse affatto l’inizio di un periodo di pace ma l’avvio di un accordo militare – dice – concretizzato un anno e mezzo dopo con la guerra dichiarata al Tigray, sostenuta e combattuta anche da Afewerki”.
Le Nazioni Unite pubblicano ciclicamente report sull’Eritrea: l’ultimo risale al 2017 e si intitola “Detailed findings of the commission of inquiry on human rights in Eritrea”. Alle accuse Onu il governo eritreo ha risposto negando ogni violazione: “L’Eritrea è uno Stato secolarizzato – si difende Asmara –. La libertà religiosa è garantita per legge e il Paese ha una ricca storia di tolleranza religiosa e coesistenza”. “Tuttavia il governo ha il dovere di assicurare che la tolleranza e l’armonia non siano perturbati dai nuovi trend: ossia il fondamentalismo islamico o cristiano”.
Ed è proprio questo il punto focale: considerare il non uniformarsi alle violazioni del regime come espressione di una deriva religiosa. “Davvero, non riusciamo a capire su quali basi il governo abbia maturato la decisione di chiudere i nostri ospedali – dichiarava tempo fa padre Mussie Zerai, sacerdote eritreo e paladino dei diritti dei connazionali –: i nostri ospedali curavano ogni anno duecentomila persone, circa il 6% dell’intera popolazione eritrea”.

(*) redazione “Popoli e Missione”

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