Dal Polo Nord all’Africa, il no dei missionari alla guerra. “Il dolore è ovunque, non ci sono buoni e cattivi”

Lo scandalo del conflitto russo-ucraino visto dai missionari. “Bisogna ascoltare le voci dei popoli”, dice Soave Buscemi, fidei donum, dal Circolo Polare. “Qui l’emergenza è la mancanza d’acqua”, segnala fra Ettore da Nairobi. Padre Diego e suor Elena dal Sud Sudan: preghiamo per la pace in un Paese che non conosce la pace

Fra Ettore nella baraccopoli a Nairobi (Foto Missio)

“Compiere un cammino verso la non violenza significa abitare il respiro dell’altro, senza trascurare nessuno. Ascoltando anche la voce dei popoli dell’estremo Nord. Perché il dolore è ovunque!”. A parlare dalla cittadina di Skelleftea, in Svezia, dove accompagna la lettura popolare della Bibbia, è Soave Buscemi, missionaria fidei donum e “globetrotter” della missione. Soave si muove in tutto il nord, tra diocesi del circolo polare artico e realtà ai confini con la Danimarca. Ma la sua casa oramai è il Brasile, dove fa tappa fissa.

Soave Buscemi (Foto Missio)

Evitare gli estremismi. “Come missionaria – dice Buscemi – è stato molto importante per me comprendere il punto di vista di chi vive nei territori sconfinati tra Russia, Norvegia e Finlandia. Molte persone hanno paura qui: nei Paesi che non fanno parte della Nato, come la Finlandia, si sente il senso del rischio”. Aggiunge: “questa settimana ho ascoltato moltissimo la gente del Circolo Polare artico, dove l’unico popolo indigeno, quello dei Sami, che i colonialisti chiamano lapponi, sta perdendo il suo territorio: è spezzettato per via della deforestazione. I Sami, impoveriti non sanno più dove portare le loro renne”. All’estremo Nord la missionaria promuove una pastorale in accordo con la Chiesa luterana di Svezia e spiega che “si è parecchio riflettuto sulla questione della guerra in Ucraina e sulla necessità di fare attenzione a non polarizzare i buoni e i cattivi”.

(Foto Missio)

Invito a dialogare. “La Russia non si estende solo da Mosca verso l’occidente – dice –, ma anche verso lo sconfinato oriente: non scordiamoci di questa parte di mondo, tutto il territorio desertico e ghiacciato delle steppe. Le persone percepiscono che il dolore è ovunque: sia tra i ‘cosiddetti buoni’, gli ucraini, che tra coloro che definiamo i cattivi”. Il nostro “no alla guerra – conferma – non è un no alla guerra in Ucraina, è un no al conflitto tout court! Un no alle armi. È un invito a dialogare”. Sapendo bene che il dialogo inizia molto prima dell’emergenza bellica. “I finlandesi dicono che per loro è importante dialogare, noi l’abbiamo sempre fatto, dicono. Ma sono delle abitudini, delle pratiche da coltivare…”. Inoltre, spiega Buscemi, l’embargo sulla Russia “nelle campagne e nelle steppe desertiche fa sì che manchi il minimo necessario per mangiare”. Le patate, per fare un esempio, “non puoi mica comprarle liberamente, le hai razionate. Sta mancando il necessario per vivere e questo ce lo hanno riferito proprio loro. Sono i più semplici, non gli oligarchi a rimetterci”.

Quando arrivarono i siriani. Poi ci racconta una storia di accoglienza e integrazione che riguarda proprio Skelleftea. “Questa cittadina alla frontiera tra Svezia e Finlandia, a nord del mar Baltico, era abitata da soli autoctoni fino a pochi anni fa. Con qualche rara presenza di finlandesi. Poi una decina di anni fa sono iniziati dalla Siria i corridoi umanitari di richiedenti asilo che attraversavano le frontiere”, ricorda Soave. Nel giro di 15 giorni sono arrivati tremila rifugiati e “non c’era più spazio per nessuno. Allora la gente ha aperto le case: la chiesa di Hparanda vicino Minnesvandring è stata lo spazio di accoglienza di tutti i respiri religiosi, dai musulmani agli ortodossi; quando poi tremila persone hanno ricevuto finalmente lo status di rifugiati, nella quasi totalità hanno scelto di rimanere”. Dice la missionaria: “questo tempo di cambiamento o ci insegna che siamo profondamente umani, o ci farà perdere vita e umanità”.

(Foto Missio)

“Retorica messianica”. Dall’altra parte del globo, e precisamente dalla baraccopoli di Deep Sea (“mare profondo”) alla periferia di Nairobi, un altro missionario, stavolta un frate francescano, fra Ettore Marangi, ci spiega come viene percepita la guerra all’Ucraina dalla prospettiva africana. “Bisogna negoziare ad ogni costo. Si tratta di salvare la vita delle persone. Io non avrei alcun dubbio se dovessi scegliere tra la vita dei miei, qui a Deep Sea, e quella dell’integrità dei territori… Non avrei alcun dubbio! Vedo tanta retorica messianica sul fronte ucraino”. Aggiunge: “tutti si presentano come messia, anche con connotati religiosi. Il Papa consacra alla madonna entrambi i Paesi, la Russia e l’Ucraina, poi vediamo che perfino Putin parla con venature religiose”. Sconsolato fra Ettore dice: “siamo proprio fuori da un contesto di negoziato, non è la strada giusta a mio parere. Abbiamo posto l’attenzione sui leader, tutto il resto è contorno. I popoli sono il contorno. Inoltre vedo un cristianesimo molto identitario, poco basato sul messaggio evangelico: manca un discorso centrato sui diritti umani. Se le lotte non si fanno a partire dai diritti umani, che senso hanno le parole libertà e democrazia?”.

Vivere nella baraccopoli. Quando gli chiediamo com’è la quotidianità in una baraccopoli di 6mila abitanti che vive di scarti, fra Ettore, che è pugliese e ha un forte accento salentino, ride: “volete sapere qual è la nostra emergenza in questi giorni? L’acqua. Non abbiamo più acqua. Ci hanno tolto pure l’allaccio all’acqua a Deep Sea perché stanno facendo dei lavori per costruire una strada. Per loro seimila persone che stanno senza acqua diciamo potabile (però va sempre trattata col cloro) non contano niente. E pensate che sia una strada utile a chi vive nella baraccopoli quella che stanno costruendo? No. È una strada per la grande viabilità e le case della baraccopoli sono a rischio demolizione. Ecco come si vive ogni giorno alla periferia di Nairobi. Non serve inventarsi anche le guerre e le armi in altre parti del mondo. Basta quello che già si soffre qui…”.

Rifugiati, due pesi e due misure. L’Africa è abituata alla guerra, ci ricorda Ettore: “in Sud Sudan la gente non ha mai vissuto in pace. Nell’est del Congo idem. La violenza è associata al desiderio di democrazia. E per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale si sta affrontando la paura anche in Europa…”. Il doppio standard dei profughi, ossia quella disponibilità riservata agli ucraini che non vediamo nei confronti degli africani, fra Ettore lo chiama “pregiudizio e colonialismo culturale”. Siamo certi che “se arrivassero altri africani sulle coste europee sarebbero ritenuti un peso”.

“Qui si muore lentamente”. Padre Diego Dalle Carbonare dal Sudan che si batte ancora contro il colpo di Stato militare, afferma: “le persone qui in Africa vedono che le armi usate in Ucraina non sono i fucili africani: noi siamo abituati alle guerre a bassa intensità, che non si fermano mai, ma uccidono in tempi più lunghi. Mentre una guerra come quella di Putin, scatenata con i carri armati e le bombe, ad alto raggio, fa molta impressione”. In Africa si muore lentamente, si muore al di fuori dei riflettori, e in tempi talmente lunghi che la morte non fa più notizia, dicono padre Diego e suor Elena Balatti, missionaria comboniana dal Sud Sudan, dove è in corso una ininterrotta guerriglia. “Le immagini dall’Ucraina arrivano fino da noi. Facebook è molto usato, i social media forniscono news sulla guerra. L’invasione di Putin ci preoccupa, ma stiamo pregando affinché ci sia la pace”, dice suor Elena.

(*) redazione “Popoli e Missione”

 

Altri articoli in Mondo

Mondo