Ucraina e Russia. Buonomo: “Le religioni possono aiutare a superare le contraddizioni che portano ai conflitti”

Dal Papa, ancora una volta, “è giunta la risposta: un invito a modificare atteggiamenti e ad avere cura anche del nemico, ben sapendo che da una guerra qualcuno può anche vantare una vittoria, ma nessuno può dirsi vincitore se le cause che hanno determinato il conflitto non verranno rimosse”. Ha le idee chiare, Vincenzo Buonomo, ordinario di diritto internazionale e rettore magnifico della Pontificia Università Lateranense, rispetto alla crisi russo ucraina

(Foto ANSA/SIR)

“La diplomazia per sua natura non può fallire e anche durante un conflitto l’attività diplomatica non si ferma”. Per questo il Papa non ha esitato a richiamare “quanti si dicono cristiani, ma poi sono pronti a combattersi”. Da lui, ancora una volta, “è giunta la risposta: un invito a modificare atteggiamenti e ad avere cura anche del nemico, ben sapendo che da una guerra qualcuno può anche vantare una vittoria, ma nessuno può dirsi vincitore se le cause che hanno determinato il conflitto non verranno rimosse”. Ha le idee chiare, Vincenzo Buonomo, ordinario di diritto internazionale e rettore magnifico della Pontificia Università Lateranense, rispetto alla crisi russo ucraina. L’invasione delle truppe di Putin in suolo ucraino ha radici profonde e viene da lontano. Le cronache raccontano i fatti ma spesso dimenticano le cause alla base del gesto del capo del Cremlino.

Come si è giunti a questa situazione? Quella di Putin è stata una mossa per lui “inevitabile”? Cosa bisognava fare a livello internazionale per evitare questa invasione?
Atto di aggressione. È questa l’espressione che legge correttamente quanto avvenuto in Ucraina, che significa sacrificio di vite umane, distruzioni, spostamenti forzati di popolazione…

L’aggressione, infatti, è realtà che non trova giustificazioni, né può essere traslata in operazione tecnica e tanto meno umanitaria, perché sarebbe il modo per negare ogni evidenza. E di fronte ad un’aggressione non è facile – forse neanche possibile – individuare come si poteva evitare, perché quanto avvenuto è un atto volontario, ben studiato, organizzato nel tempo, (e in questo caso anche legato al passato (dell’Impero russo), motivato della “necessità” di collegare i russi alla Russia fa scempio delle regole e torna a contrapporre la forza alla coesistenza.

E ora, che scenari si aprono?
L’aggressione posta in essere rischia di diventare esempio per tanti e forse anche un modo per riaprire gli scenari di una contrapposizione militare, strategica, geopolitica che non sembrava più appartenere ai nostri giorni. Di conseguenza restiamo non solo increduli davanti agli eventi, ma non ne comprendiamo neanche la portata, sebbene obbligati a viverne gli effetti. Restiamo sorpresi perché l’attacco non era prevedibile almeno nei modi in cui si sta realizzando, e forse anche impensabile abituati a ritenere ormai lontana dal contesto europea l’idea che il più forte possa farsi spazio usando la forza.

E per quanto riguarda l’immediato futuro?
Cosa ci riserva il futuro dobbiamo cercare di leggerlo in due direzioni. Da un lato auspicare la consistenza e la cogenza delle pressioni internazionali, anche nella forma di sanzioni, soprattutto con la volontà di fermare la violenza bellica di chi ha avviato questo processo degenerativo della pacifica coesistenza; dall’altro pensare che potranno ridisegnarsi confini diversi, magari attraverso un referendum indetto nelle due autoproclamate repubbliche nel Donbass, preludio ad un’annessione alla Federazione Russa.

Certamente la geografia europea, oggi tracciata, potrà cambiare a motivo della sua instabilità originaria: in fondo, aveva trovato legittimazione con uno spaventoso aumento dei confini dopo la caduta del “muro”.

In quel momento a tutto aveva supplito il valore superiore della coesistenza pacifica e duratura. Guardando i fatti, non c’è bisogno di attendere una formalizzazione dello spostamento delle frontiere, ma è doloroso constatare che questo obiettivo è pensato contro ogni regola.

Come giudica le misure adottate dall’occidente?
Non credo che proteste, sanzioni o altre forme di pressione siano sufficienti a modificare la situazione in assenza di un effettivo convincimento che nei rapporti internazionali la forza non può essere utilizzata per determinare il fait accompli, e neanche per sostenere posizioni e rivendicazioni frutto di interessi singoli o meglio egoistici.

Ma quella russa è una condotta isolata o se ne trova traccia nelle relazioni internazionali?
Che gli Stati tendano a preservare la loro integrità territoriale rispetto a controlli, minacce, interferenze esterne o anche a pressioni, è un dato certo; ma che essi decidano di farlo sostituendo il negoziato e gli altri strumenti offerti dalle regole internazionali con la forza non è altrettanto legittimo, e forse neanche praticabile in una fase storica che fa del comunicare un suo vessillo.

Si può parlare di fallimento della diplomazia internazionale e delle Nazioni Unite in particolare?
La diplomazia per sua natura non può fallire, perché in grado di usare anche “armi” diverse rispetto a quelle che apertamente possiamo cogliere, leggere, apprezzare o criticare. Anche durante un conflitto l’attività diplomatica non si ferma, non solo per cercare di mitigare o arginare gli effetti di combattimenti e stragi, ma anche e soprattutto per facilitare il dialogo e pensare al dopo.

Il post conflitto, specie di fronte a una “guerra lampo” come quello che si preannuncia in Ucraina, diventa l’elemento più difficile da realizzare, ma anche da interpretare. Ecco che la diplomazia assume un ruolo chiave, diviene strumento per garantire il ristabilimento di un nuovo scenario, di un ordine che, se pur richiede di essere tutelato con le armi (basta uno sguardo al Balcani, alle diverse regioni dell’Africa centrale e occidentale, agli scenari mediorientali), consente di pensare ad una giustizia di transizione in grado di riportare alla coesistenza, anche evitando soluzioni sommarie o quelle che poi diventano solo un diverso modo di combattere.

Inoltre, oggi poi la diplomazia deve necessariamente conseguire dei risultati con la pressione che – se si vuole – è possibile esercitare sulle diverse parti di un fronte bellico: dall’economia alle risorse, dagli spostamenti di popolazione ad una mobilità umana conseguente. Ecco perché escluderla, sostenendo semplicemente che ha fallito, è soltanto un modo per dire che alla forza armata non c’è alternativa e continuare ad illudersi che l’uso della forza sia risolutivo di questioni, problemi, contrapposizioni.

Quali conseguenze sono legate all’invasione russa e quale sarà d’ora in poi il rapporto tra Russia e Comunità Internazionale?
Che sulla guerra in Ucraina pesi una “strategia dell’energia” è un dato che conoscevamo, ripetutamente oggetto di analisi ed effetti sul terreno. Oggi ne sperimentiamo pesantemente gli esiti che sul piano strettamente economico-finanziario sembrano vedere vincitrice la Russia, sul medio e lungo periodo richiederà invece il ricorso ad altre fonti, ad altre strade dell’energia e forse riuscirà ad imporre un più rapido accesso all’utilizzo delle cosiddette energie alternative. Di questo le parti in conflitto, come pure tutti gli altri protagonisti – dall’Unione europea agli Usa, alla Cina ….– ne hanno piena consapevolezza e si dividono tra la necessità di arginare le armi e l’interesse a prevenire squilibri delle loro economie e dell’assetto delle loro società. Dimenticano, però, che il tempo scorre inesorabile e che oggi anche i conflitti hanno necessità di realizzarsi ed espletare i loro effetti in un breve arco di tempo, di idee e di risultati. Corrono anch’essi dietro la scansione delle notizie che rapidamente scorrono in un sistema di informazione che cerca l’effetto, ma non si cura di approfondire le conseguenze.

Si parla del ruolo che possono svolgere i cosiddetti attori religiosi per fermare il conflitto?
Da più parti si è invocato un intervento “super partes” capace di essere risolutivo. Al Papa in tanti guardano come possibile mediatore o forse risolutore. E ancora una volta da Papa Francesco è giunta la risposta: un invito a modificare atteggiamenti e ad avere cura anche del nemico, ben sapendo che da una guerra qualcuno può anche vantare una vittoria, ma nessuno può dirsi vincitore se le cause che hanno determinato il conflitto non vengono rimosse. Nel caso specifico, probabilmente il territorio ucraino vedrà ridisegnati i suoi confini o forse la presenza dell’aggressore potrà rimanere a lungo, magari continuando ad usare la forza.

Tuttavia se i motivi che hanno scatenato oggi la guerra resteranno irrisolti, permarrà un nodo che magari si riproporrà in uno spazio di tempo ravvicinato.

Ed ecco il ruolo che le religioni e la cristianità in particolare possono svolgere rispetto al conflitto, iniziando dal superare quella contraddizione che Papa Francesco sintetizzava richiamando quanti si dicono cristiani, ma poi sono pronti a combattersi. Anche per gli attori religiosi superare le difficoltà della distinzione: parte dei cristiani ortodossi ucraini sono uniti al Patriarcato di Mosca e quest’ultimo non ha mancato di attribuire effetti negativi al collegamento di quella parte dell’ortodossia ucraina riconosciuta dal Patriarcato di Costantinopoli. Superare le contrapposizioni che nascono dalle distinzioni potrebbe essere già un risultato, e qui i carismi non sono sufficienti se non accompagnati da una profonda umiltà tale da non confondere legami nazionali o comunque interessi che dimenticano il senso cristiano della pace. Quest’ultima, infatti, non è astrazione ma relazione, concretezza, attenzione e cura del fratello.

Altri articoli in Mondo

Mondo