Il vescovo Jaramillo minacciato di morte: “Sono tranquillo. Devo restare con il mio popolo”

Mons. Rubén Darío Jaramillo, vescovo di Buenaventura in Colombia ha subito recentemente minacce di morte da parte di gruppi criminali, che ostentano il proprio potere sulla città, primo porto colombiano del Pacifico e snodo strategico per tutti i tipi di traffico, compresi quelli illeciti, a partire dal narcotraffico. Agli occhi dei criminali, la “colpa” di mons. Jaramillo è quella di aver sollevato il “caso Buenaventura”, reso evidente dalla “catena umana” promossa qualche settimana fa, espressione corale di una comunità stanca e impaurita, ma capace di reagire alla violenza continua. Da quel momento, anche uno Stato, com’è quello colombiano, spesso “assente” nelle periferie, ha “dovuto” dare un segnale. Polizia ed esercito si sono installati in città, con qualche risultato

“Sono tranquillo, non ho paura, devo restare con il mio popolo”. Ad affermarlo, al Sir, è il vescovo di Buenaventura, mons. Rubén Darío Jaramillo, che ha subito recentemente minacce di morte da parte di gruppi criminali, che ostentano il proprio potere sulla città, primo porto colombiano del Pacifico e snodo strategico per tutti i tipi di traffico, compresi quelli illeciti, a partire dal narcotraffico. Agli occhi dei criminali, la “colpa” di mons. Jaramillo è quella di aver sollevato il “caso Buenaventura”, reso evidente dalla “catena umana” promossa qualche settimana fa, espressione corale di una comunità stanca e impaurita, ma capace di reagire alla violenza continua.

Da quel momento, anche uno Stato, com’è quello colombiano, spesso “assente” nelle periferie, ha “dovuto” dare un segnale. Polizia ed esercito si sono installati in città, con qualche risultato.

Le minacce di morte risalgono a qualche settimana fa, ma sono emerse in questi giorni, quando i vescovi delle 14 diocesi del Pacifico e del Sudovest colombiano si sono ritrovati d’urgenza, anche per manifestare vicinanza al confratello, al quale è stata rafforzata la scorta.

Chi sa interpretare i “codici” colombiani, legati a una lunga scia di sangue e di morte, garantisce che non si tratta di minacce generiche. La risposta corale di Istituzioni, organismi internazionali, Chiesa, società civile, lascia intendere che il rischio è concreto e altissimo. Importanti, allora, gli attestati di vicinanza giunti dall’Onu, dal Governo colombiano, dalle Ambasciate europee. E quelli, naturalmente degli stessi vescovi. Dopo la nota, mercoledì, del primate della Colombia, l’arcivescovo di Bogotá, mons. José Rueda Aparicio, il 4 marzo è giunta quella della Conferenza episcopale colombiana, che in una nota esige “rispetto per le vite e l’integrità fisica” del vescovo Jaramillo e degli abitanti di Buenaventura, segnalando che il percorso intrapreso nella città “è guidato dalla Parola del Signore, principe della pace”. I vescovi allargano lo sguardo alle altre drammatiche realtà del Pacifico e del Sudovest colombiano, dove si concentra la maggior parte dei massacri e delle uccisioni di leader sociali, mai così numerose come in queste settimane: 28 leader sociali 10 ex guerriglieri firmatari dell’accordo di pace del 2016 a partire dall’inizio dell’anno, in tutto il Paese. Tra le altre situazioni, quella della zona del fiume Baudó, nel Chocó: qui la popolazione indigena è costretta a fuggire dalle proprie case, a causa degli scontri tra gruppi armati, come è emerso da un recente visita di tre vescovi della regione e di rappresentanti dell’Onu.

Raggiungiamo mons. Jaramillo quando la riunione dei vescovi del Pacifico e del sudovest è terminata da qualche minuto.

Qual è il suo stato d’animo rispetto alle minacce di morte ricevute?
Per la verità sono tranquillo e non ho paura, per almeno tre motivi. In primo luogo, sono un uomo di fede, e confido nel Signore. In secondo luogo, vedo attorno a me il sostegno della comunità e delle Istituzioni. Mi è stata rafforzata la scorta, ho qui con me in ogni momento tre agenti di polizia. In terzo luogo, sono tranquillo perché stiamo facendo quello che dobbiamo fare, è nostro compito essere Chiesa vicina al popolo, con l’odore delle pecore. Questo è il modo per, noi di essere Chiesa qui.

Ha ricevuto tanti attestati di stima e solidarietà, se lo aspettava? Non sempre in Colombia le persone così esposte hanno ricevuto, anche a livello mediatico, un’attenzione così alta. È un segno di speranza?
Sì, è proprio così. Sono impressionato di aver ricevuto un sostegno così forte e corale. Il presidente, Iván Duque, mi ha telefonato, chiedendomi di andare avanti con le mie denunce. La vicepresidente, Martha Lucia Ramírez, mi ha incontrato personalmente. Ho avuto molta attenzione dai mezzi di comunicazione. Quello che stiamo facendo altro non è che difendere i poveri, la dignità di un popolo calpestato, vittima di violenze, sfollamenti, che resiste al narcotraffico e ai gruppi armati e violenti, alle pandillas, le bande criminali che spadroneggiano.

Perché Buenaventura è così importante?
È una città di mezzo milione di abitanti, con un’altissima densità abitativa, dato che è urbanizzato solo il 3% del territorio comunale. Una situazione che crea un forte sovraffollamento. È la maggiore città del Pacifico, circa a metà di una costa lunga 1.300 chilometri, tra il confine con Panama e quello con l’Ecuador. La si raggiunge facilmente, perché il suo porto è il maggiore del Paese. Per Buenaventura passa qualunque commercio con la Cina e con l’Oriente, transita il 60% di quanto viene importato dalla Colombia e gran parte delle esportazioni. Ma è fortissima la presenza di gruppi illegali e la vera spina dorsale del commercio è il narcotraffico. Da qui partono i sommergibili carichi di coca, diretti in Centroamerica, in Messico, negli Usa.

La Polizia ha aumentato la sua presenza in città. Ha portato risultati? E, soprattutto, è sufficiente?
Bisogna distinguere due questioni. C’è l’aspetto della sicurezza. Dopo la catena umana di protesta la Polizia e l’Esercito sono arrivati in buon numero, molti delinquenti sono stati arrestati, compresi alcuni leader. Sono state sequestrate grandi quantità di armi e droga. C’è poi l’aspetto dello sviluppo sociale ed economico. Qui servono politiche di medio e lungo respiro. Manca un acquedotto, non ci sono case, un sistema sanitario ed educativo adeguati, soprattutto mancano lavoro e prospettive per i giovani, che così sono attratti dai gruppi criminali.

A Buenaventura non manca però una comunità, sia ecclesiale che civile, in grado di far sentire la sua voce. È merito anche della Chiesa e dei suoi predecessori, in particolare mons. Gerardo Valencia Cano e, più recentemente, mons. Héctor Epalza Quintero, morto poche settimane fa?
Buenaventura è una comunità con una composizione sociale molto particolare, è costituita per l’85% da afro, e per il 12-13% da meticci. È una popolazione gioiosa e solidale, capace di unirsi, del resto l’unica forza dei poveri è proprio l’unione. La Chiesa è sempre stata presente. Mons. Cano ha, si può dire, dato un’impronta alla città, con un’attenzione particolare all’educazione. Mons. Epalza ha contribuito agli scioperi civici del 2014 e del 2016, ha saputo accompagnare i processi sociali. Qui a Buenaventura non si può essere vescovi “profumati”, è indispensabile avere addosso l’odore delle pecore, di tante vittime della violenza, dei giovani sfruttati.

Cosa è emerso dai tre giorni d’incontro tra i vescovi del Sudovest e del Pacifico?
Ho avvertito nei miei confronti solidarietà e fraternità episcopale. E poi abbiamo parlato di tante situazioni, non solo di Buenaventura, che però è un po’ il riassunto dei problemi della Colombia. La nostra azione vuole essere un segno per tutto il Paese. Dall’incontro è emerso l’impegno della Chiesa per la rigenerazione della Colombia, a fianco del proprio popolo.

(*) giornalista de “La vita del popolo”

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