I missionari raccontano l’Etiopia. “Nord in trappola tra guerra, Covid e locuste”

Missionari italiani e keniani raccontano la tragica situazione in cui versa il Paese del Corno, stretto nella morsa del conflitto nel Tigray, del coronavirus e dell'invasione delle locuste che portano la carestia. Il governo di Abiy Ahmed, Nobel per la pace 2019, non riesce a risollevare la nazione. La popolazione è stremata dalla povertà. E per far fronte alla pandemia manca un sistema sanitario adeguato

Protesta contro la guerra civile nel Tigray (foto ANSA/SIR). Sotto, un'altra immagine dall'Etiopia

La fortuna del governo di Abiy Ahmed in Etiopia sembra essersi velocemente inabissata. Il Paese del Corno d’Africa è in balia di tre crisi concomitanti che mettono a repentaglio la vita di centinaia di migliaia di persone e minacciano la tenuta politica. La pandemia da Covid-19 (ancora incombente su gran parte dell’Africa occidentale con oltre 2 milioni di persone infette in tutto il continente), in Etiopia sfiora i 106mila casi e ha provocato 1.651 morti; la guerra civile tra governo centrale e regione autonoma del Tigray che ha raggiunto proporzioni regionali; e infine il ritorno delle locuste che minacciano l’80% dei raccolti nel nord del Paese.

Lo spettro della fame. Ed è proprio il nord ad essere sotto scacco, come racconta don Angelo Regazzo, missionario salesiano ad Addis Abeba, preoccupato per la sorte dei suoi confratelli di Makalle e altre zone settentrionali. La regione del Tigray, al confine col Sudan e l’Eritrea, dal 4 novembre scorso è isolata dal resto dell’Etiopia: le linee telefoniche sono state tagliate e le vie di collegamento interrotte. Ora si attende lo scadere dell’ultimatum lanciato da Abiy Ahmed al leader dissidente del Tigray People Liberation Front, per la resa. Ma sembra che i ribelli tigrigni non abbiano nessuna intenzione di fermare le armi e la rivolta. “Sono quattro le comunità salesiane in pericolo al nord – spiega don Regazzo a Sir e Popoli e Missione –. Una è a Mekele, una Adwa, a Shire e a Makalle. Le comunicazioni sono interrotte, ma qualcuno di noi ha saputo tramite brevi conversazioni satellitari che la situazione è molto brutta per loro. I nostri confratelli a stento riescono a trovare cibo per nutrirsi ogni giorno e hanno con loro una trentina di aspiranti studenti in missione, che non sono riusciti a rimandare a casa e vivono lì. Gli altri sono confratelli che vendendo una cosa o l’altra riescono a trovare almeno da mangiare. Devo dire che non se la passano bene: alcuni sono stati aggrediti anche dai ladri che portano via tutto, persino le gomme delle auto”.

La minaccia della guerra. A proposito di questo conflitto Beppe Magri, collaboratore del Cum di Verona e missionario laico per molti anni in Etiopia, spiega che “parte degli arsenali meglio riforniti dell’esercito federale sono in mano alle forze di sicurezza del Tigray”. Molto preoccupanti risultano le dichiarazioni del neoeletto presidente tigrino, Debretsion Gebremichael. “Tutto questo – dice Magri, membro del Comitato degli interventi caritativi Terzo mondo – non fa sperare in una rapida soluzione del conflitto che rischia di coinvolgere direttamente anche altri Paesi confinanti”. La guerra spaventa, perché mostra tendenze regionali, coinvolgendo anche l’Eritrea attaccata nei giorni scorsi con dei razzi sull’aeroporto di Asmara. Soprattutto spaventa una nuova crisi umanitaria, dopo essere sfuggiti alla guerra ventennale con l’Eritrea: “gli sfollati scappano adesso in Sudan e si rischia la crisi umanitaria”, dice Magri.

Il rovescio del Nobel Abiy. Al contempo la pandemia e la fame minacciano un Paese fino a poco tempo fa tra i più prosperi dell’Africa. “Il Premio Nobel per la pace Abiy ha subito un rovescio di fortuna in pochissimo tempo e con lui l’intero popolo”, dicono gli osservatori internazionali e scrive la stampa locale; questo confermano i missionari italiani che si trovano ad Addis Abeba. “Noi eravamo così felici della gestione di Abiy, è un uomo di unità e pace. E non era solo un’impressione”, dice suor Veronica Mburu, comboniana keniana e superiora generale in Etiopia. “Le nostre consorelle hanno famiglia nel Tigray e noi non riusciamo ad avere loro notizie, perché tutto è bloccato. È stato uno spavento per noi”, dice suor Veronica. “Noi comboniane siamo presenti anche al sud ovest, a Mandura, ci sono sei consorelle, qui c’è molta insicurezza. Già prima della crisi del Tigray c’erano gruppi ribelli che attaccavano i civili. Attaccano, rubano e scappano”.

I contagi aumentano. Laddove il Paese sfugge al conflitto (che per il momento è circoscritto al Tigray), arrivano la povertà estrema, con la minaccia delle locuste ai raccolti, e il Covid. Il Paese è ancora in semi lockdown e le scuole sono chiuse; le fabbriche sono aperte ma la pandemia ha intaccato le capacità produttive ed economiche dell’Etiopia. Oltre ai salesiani, nel Paese sono presenti le suore comboniane della Emmaus Haus, i padri comboniani di Addis Abeba e un fidei donum di Padova, don Nicola de Guio, nella diocesi di Robe, che è subentrato a don Peppe Ghirelli e che porta avanti la sua missione assieme a don Stefano Ferraretto e alla laica Elisabetta Corà. Don Nicola de Guio è rientrato temporaneamente in Italia per via della pandemia e racconta: “il virus da noi in Etiopia è arrivato a metà marzo e le misure sono state quelle di chiusura, prevenzione e attenzione – dice –. È un Paese che ha meno strumentazione sanitaria rispetto all’Europa, ovviamente, e non si fanno moltissimi tamponi. Siamo 107 milioni di persone e facciamo 7-8mila tamponi al giorno. Si nota che il virus comunque contagia e si diffonde soprattutto nelle grandi città anche per una difficoltà a mantenere le distanze e fare attenzione”.

(*) “Popoli e Missione”

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