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Conflitto israelo-palestinese. Baskin (Ipcri): “La sfida enorme di israeliani e palestinesi”, uno Stato per due popoli

Israele annuncia annessione di parte del territorio occupato della Cisgiordania e il presidente palestinese, Abu Mazen, risponde svincolando la Palestina dagli accordi siglati con Usa e Israele. La soluzione "Due popoli, due Stati" appare sempre più lontana. Ne è convinto Gershon Baskin, co-presidente fondatore di Ipcri, editorialista di The Jerusalem Post, che rilancia: "Giunto il tempo di pensare a un nuovo orizzonte", a una soluzione a "Uno Stato". Baskin ha di recente pubblicato il libro "In pursuit of peace in Israel and Palestine" (Alla ricerca della pace in Israele e Palestina), edizioni Vanderbilt University Press

La Palestina si sfila dagli accordi con Israele e Usa. La decisione del presidente palestinese Abu Mazen è arrivata nella serata del 19 maggio, rilanciata dall’agenzia palestinese Wafa, e fa seguito all’annuncio del nuovo Governo di emergenza nazionale, guidato da Benyamin Netanyahu e Benny Gantz, di annettersi parte del territorio occupato della Cisgiordania, come prevede il piano di pace proposto da Donald Trump il 28 gennaio scorso a Washington. “L’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e lo Stato di Palestina si sentono svincolati da oggi da tutti gli accordi e le intese con gli Usa e Israele e da tutti gli obblighi che da essi derivano, compresi quelli di sicurezza” ha detto Abu Mazen richiamando così Israele “ad assumersi i propri obblighi in quanto potenza occupante con tutte le conseguenze e le ripercussioni basate sul diritto internazionale e umanitario, in particolare la Quarta Convenzione di Ginevra”. Chiaro il riferimento alla responsabilità per “la sicurezza della popolazione civile nei territori occupati e delle sue proprietà, il divieto di punizioni collettive, del furto di risorse, dell’annessione di terra e di trasferimenti di popolazione dall’occupante agli occupati, che costituiscono gravi violazioni e crimini di guerra”. Dichiarazioni non nuove per il presidente palestinese che già in un altro paio di occasioni aveva minacciato questa intenzione. L’ultima il 22 aprile, nel corso del discorso tenuto in occasione dell’inizio del Ramadan: “Non staremo a guardare se Israele dichiarerà l’annessione di qualsiasi parte delle nostre terre e considereremo nulli tutti gli accordi e le intese tra noi e questi governi, sulla base delle relative decisioni dei Consigli nazionali e centrali”. E ancora prima, a fine gennaio, alla riunione straordinaria convocata dalla Lega Araba al Cairo, in seguito alla presentazione del Piano di Trump per la pace in Medio Oriente. In quella occasione affermò: “Non accetterò l’annessione di Gerusalemme e non voglio passare alla storia come colui che ha venduto Gerusalemme”, aggiungendo che l’Autorità nazionale palestinese, “non accetterà mai gli Usa come unico mediatore al tavolo dei negoziati con Israele”.

Gershon Baskin

E davanti alla forte volontà di Israele di annettersi parti del territorio occupato della Cisgiordania e alla reazione palestinese di svincolarsi da ogni accordo e intesa con Usa e Israele, la soluzione al conflitto israelo-palestinese, denominata “Due Popoli, Due Stati”, sostenuta dalla comunità internazionale, Santa Sede in testa, sembra oramai tramontata. Ad esserne convinto è Gershon Baskin, co-presidente fondatore di Ipcri, Israel Palestine Center for Research and Information, editorialista di The Jerusalem Post. Tra i suoi incarichi anche quello di consulente esterno del defunto primo ministro Yitzhak Rabin per il processo di pace, negoziatore per il rilascio del militare israeliano Gilad Shalit, e direttore dell’Istituto per l’educazione alla coesistenza ebraico-araba.

“Se l’annessione verrà effettivamente attuata – dice al Sir – sarà il segnale della morte formale della soluzione ‘Due Popoli, Due Stati’. Se poi queusta includerà la Valle del Giordano, allora metterà a rischio anche il trattato di pace tra Israele e Giordania. Israele – rimarca Baskin – ha goduto dell’impunità virtuale della comunità internazionale che non è stata in grado di impedire allo stato ebraico di portare avanti l’occupazione, di espandere i suoi insediamenti violando i diritti umani e nazionali dei palestinesi e ora incapace di impedire l’annessione”.

Come giudica la decisione di Abu Mazen di decretare la fine degli accordi con Israele e Usa?
Abu Mazen, l’uomo che ha firmato gli accordi di Oslo insieme a Shimon Peres, ha posto fine all’illusione che il processo di pace di Oslo fosse ancora vivo. Nonostante analoghe minacce espresse in passato, questa volta la cosa pare più grave. Nel suo discorso Abu Mazen ha parlato continuamente di Stato palestinese occupato e di Israele come Stato occupante. Abu Mazen ha ragione nell’usare la terminologia ‘Stato occupato della Palestina’. Lo Stato di Palestina è stato riconosciuto dall’Onu come ‘Stato osservatore non membro’. Ciò significa che può firmare convenzioni e aderire a organizzazioni internazionali. Lo Stato di Palestina ha il diritto legale e l’obbligo, nei confronti del suo popolo, di essere un membro attivo e pieno della comunità internazionale, e ciò comporta anche il ricorso al Tribunale penale internazionale secondo la Convenzione di Roma. Quindi il governo dello Stato di Palestina può continuare a esistere e ‘sfidare’ Israele che sta violando il diritto internazionale occupando un altro Stato.

Abu Mazen può e dovrebbe sciogliere l’Autorità nazionale palestinese (Anp)

che è stata creata dall’accordo di Oslo e che doveva esistere per 5 anni fino alla fine del 1999. L’Anp può essere affidata alla storia e non esistere più. Né Israele né l’ex Autorità palestinese possono essere obbligati a mantenere relazioni secondo un accordo scaduto da molto tempo.

Con Oslo muore anche la soluzione “Due Popoli, Due Stati”. Quali sono le ragioni di questo fallimento?
Il fallimento del processo di pace deriva dal fallimento di entrambe le parti, Israele e Palestina, nell’attuare gli obblighi assunti nell’ambito degli accordi che hanno redatto e firmato.

Le violazioni palestinesi vedono l’uso della violenza e del terrorismo mentre le principali violazioni di Israele risiedono nel mancato ritiro dai territori palestinesi impedendo allo Stato palestinese di nascere.

Entrambi i popoli hanno perso fiducia nel processo di pace man mano che la violenza continuava e si radicava. Gli Usa, poi, hanno monopolizzato il processo di pace promosso dalla comunità internazionale agendo come i peggiori mediatori possibili, senza mai essere negoziatori neutrali e imparziali e senza esercitare una vera pressione sulle parti perché si attenessero agli accordi raggiunti.

Se la soluzione “Due Popoli, Due Stati” non è più sostenibile quali prospettive potrebbero realisticamente aprirsi?
Credo che la soluzione dei Due stati non sia più praticabile. Potrebbe non esserci alcuna soluzione. Ma

questo è il momento di iniziare a pensare a ciò che verrà dopo, a un nuovo orizzonte.

Magari a quella soluzione a “Uno Stato” di cui ha parlato anche recentemente in alcuni suoi articoli?
Come detto più volte, non posso certo dichiarare di essere un sostenitore della cosiddetta ‘Soluzione a uno Stato”. Sto solo valutando che probabilmente è troppo tardi, in questo momento, trasformare in realtà una soluzione a due Stati. È tempo di lavorare a qualcosa di completamente nuovo.

Israeliani e palestinesi insieme?

Credo sia giunto il tempo per israeliani, palestinesi e altri di riunirsi seriamente per iniziare a sviluppare dei piani utili a trasformare la nostra realtà in una che sia accettabile e sostenibile, basata su uguaglianza e libertà di movimento, e rappresentativa delle nostre diverse identità.

Abbiamo due popoli, più o meno di dimensioni uguali, con quantità di potere molto sproporzionate, entrambi legati alla stessa area geografica di cui rivendicano la proprietà, negando entrambi i diritti e l’esistenza dell’altro.

La sfida è enorme…
Enorme: si tratta di approfondire questioni relative allo status di residenza, alla cittadinanza, alla governance, sviluppare meccanismi che ci permettano di esprimere le nostre diverse identità e sviluppare istituzioni nazionali basate sull’uguaglianza e su un governo comune.

È la sfida dell’integrazione sociale, politica, economica, della riparazione delle ingiustizie.

Vi sono importanti esempi di transizione da conflitti etnici-religiosi-razziali a sviluppi pacifici da cui possiamo imparare. Penso al Sudafrica, all’Irlanda del Nord, al Ruanda, alla Bosnia: tutti possono fornirci insegnamenti da rileggere attraverso la lente del nostro conflitto.

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