Covid-19, in guerra contro noi stessi

“Guerra” è un sostantivo che normalmente ha una valenza storica ed echeggia in noi tragedie lontane, magari del secolo scorso. Al massimo ci richiama eventi bellici attuali ma non vicinissimi: dalla guerra in Libia a quella in Siria. Questo almeno fino a febbraio scorso, quando improvvisamente per il diffondersi del coronavirus, questo termine ha assunto una drammatica attualità e oggi spesso si sente: “Siamo in guerra”.

(foto Esercito Italiano)

“Guerra” è un sostantivo che normalmente ha una valenza storica ed echeggia in noi tragedie lontane, magari del secolo scorso. Al massimo ci richiama eventi bellici attuali ma non vicinissimi: dalla guerra in Libia a quella in Siria. Questo almeno fino a febbraio scorso, quando improvvisamente per il diffondersi del coronavirus, questo termine ha assunto una drammatica attualità e oggi spesso si sente: “Siamo in guerra”. Il presidente albanese Rama, nel presentare i medici in partenza per l’Italia ha detto “Voi membri coraggiosi di questa missione per la vita, state partendo per una guerra che è anche la nostra”. Ma è corretto definire quella contro il coronavirus una guerra?
Fra gli elementi che possono assimilarla a una guerra ci sono le misure assolutamente straordinarie assunte dal governo: dall’obbligo di stare in casa alla chiusura delle aziende, dalla chiusura delle scuole alla riorganizzazione sanitaria di interi ospedali. Da queste decisioni altre istituzioni ne hanno assunte di altrettanto storiche: dalla cancellazione delle celebrazioni pasquali nelle parrocchie, allo spostamento dei giochi olimpici, alla sospensione dei campionati di calcio. Altri elementi che ricordano la guerra sono le morti di moltissimi innocenti colpiti dal virus (quasi 15 mila in Italia), la gravissima crisi economica che si annuncia di dimensioni epocali, il blocco dei trasporti internazionali e nazionali.
Non tutto per˜ combacia. Il nemico come minimo è fuori dai canoni classici. Il virus non è organizzato in eserciti, non ha territori da presidiare o da conquistare, non ha una intelligenza razionale, non ci odia, ha la sua forza nell’essere invisibile. Nelle guerre del ‘900 morivano soprattutto i giovani, qui sono quasi solo gli anziani a cadere. L’esercito è sì in campo, ma con compiti più da missione di pace che da conflitto armato. E’ il personale sanitario a sembrare oggi il vero esercito (si parla non a caso di “esercito in camice bianco”).
Basta questo per intuire che se quella in corso è una guerra, è totalmente inedita. Il problema vero, in realtà, è che non c’è un termine sintetico per quanto sta avvenendo. “Pandemia” come “guerra” raccontano solo una parte della realtà. Questo evidenzia quanto sia sconosciuta la sfida che l’umanità si trova di fronte. Poi se le parole hanno il potere di creare la realtà (noi diventiamo ciò che diciamo) c’è da chiedersi la ricaduta di questo sentirci in guerra. Gli scenari possono essere diversi e non tutti positivi. Molto dipenderà da come si penserà la fase “post-bellica” e se questa tragica esperienza saprà alimentare non solo paure ma anche desideri, visioni coraggiose e lungimiranti che consentano all’uomo e alla donna del XXI secolo di proseguire la propria avventura con qualche consapevolezza in più e con qualche capacità maggiore di custodire ciò che davvero conta in questa vita. Se fosse così potremo dire che abbiamo vinto la guerra.

 

(*) direttore “La voce dei Berici” (Vicenza)

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