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Coronavirus. Tommaso Urbani: il contributo di mio padre Carlo per la Sars fondamentale nei protocolli odierni

Il coronavirus non è la prima emergenza sanitaria che il mondo si trova ad affrontare ed è sempre l'impegno dei ricercatori e dei medici a produrre risultati positivi. Nel 2003 il virus della Sars, polmonite atipica che causò oltre 8mila contagi e 775 decessi accertati, veniva isolato e identificato grazie al sacrificio del medico italiano Carlo Urbani, in servizio in Estremo Oriente con l'Oms. Il Sir ha intervistato il primogenito 32enne del microbiologo marchigiano, Tommaso Urbani, attualmente impegnato in Nigeria che sottolinea l'importanza dell'esempio del padre: "Altri come mio padre stanno lavorando ininterrottamente per mettere fine alla diffusione del virus e a loro va un ringraziamento particolare"

Ci sono antidoti alle malattie che nessun laboratorio scientifico può creare, perché frutto di quella umanità che fa rima con solidarietà. Unica panacea in grado di contrastare l’inevitabile psicosi che scaturisce da un’epidemia dagli effetti devastanti come quella che sta colpendo la Cina a causa del 2019-nCoV, depotenziando l’economia e l’intero tessuto sociale, fino a generare, nella nostra Europa, assurdi episodi discriminatori. L’apocalisse del focolaio di Wuhan, nell’Hubei, ci riporta con la mente e la memoria al 2003. Di nuovo all’Estremo Oriente, quando l’infettivologo Carlo Urbani, originario di Castelplanio, in provincia di Ancona, impegnato in prima linea contro la Sars sacrificò la propria vita, identificando per primo la polmonite atipica che causò oltre 8mila contagi e 775 decessi accertati. Chiamato in ospedale per curare una “strana” infezione dell’uomo d’affari americano Johnny Chen, contagiato a sua volta dal virus, morì a Bangkok dopo diciannove giorni di isolamento. Urbani, già attivo con “Medici senza Frontiere”, era dirigente dell’Organizzazione mondiale della Sanità ad Hanoi, dove sua moglie, Giuliana Chiorrini, l’aveva seguito assieme ai tre figli. Ancora oggi il nome del valoroso medico italiano risuona attraverso l’eco della gratitudine e la testimonianza che la sua famiglia porta avanti. Secondo l’Oms il metodo anti-pandemie da lui realizzato rappresenta, tuttora, un protocollo internazionale per combattere questo tipo di patologie. Il Sir ha intervistato Tommaso Urbani, primogenito 32enne del microbiologo marchigiano, attualmente impegnato in Nigeria.

In questi giorni dalla Cina ci raggiungono notizie con ritmo vorticoso, alcune delle quali non sempre attendibili. Che effetto fa?
Fa un effetto strano, sembra essere tornati indietro a diciassette anni fa. Stesse immagini, stesse sensazioni. Di sicuro oggi le notizie viaggiano molto più velocemente. Se da un lato questo può aiutare a condividere informazioni tempestivamente, è anche vero che purtroppo molte volte si condividono messaggi non veritieri. Questo complica la gestione dell’emergenza e crea reazioni a volte eccessive, soprattutto se non si è bene informati.

Il ricordo vola inevitabilmente a quei terribili giorni, quando suo padre, fedele alla sua vocazione di medico, non si tirò indietro di fronte all’emergenza…
Mio padre in quel periodo era responsabile dell’Organizzazione mondiale della sanità, non lavorava in ospedale. Di sicuro, però, gli mancava molto, spesso ce lo diceva. Di fronte ad una situazione del genere non poteva rispondere diversamente a quella chiamata.

Lui era un medico prima di tutto, e ha portato a termine il suo lavoro fino alla fine.

Era a conoscenza dei rischi ma non era un incosciente. Sono certo che, sapendo anche come è andata a finire, lui rifarebbe esattamente le stesse cose, e noi saremmo con lui.

Rispetto alla Sars oggi le informazioni sono state diramate con maggiore rapidità, anche per merito del protocollo che Carlo Urbani ha contribuito a creare. Che opinione ha sulle misure che si stanno adottando, specie in Italia?
Non è mia competenza parlare delle misure messe in atto per il contenimento dell’epidemia. Tuttavia, sono consapevole che il contributo che mio padre ha dato è stato fondamentale e ancora oggi se ne vedono i risultati. Altri come mio padre stanno lavorando ininterrottamente per mettere fine alla diffusione del virus e a loro va un ringraziamento particolare.

La vostra famiglia fece una scelta dettata dall’amore e dal coraggio. L’Asia è stata “casa” vostra, ma anche un luogo custode di dolore. Siete più tornati laggiù?
Prima la Cambogia, poi il Vietnam sono state casa nostra. E continuano ad esserlo. Abbiamo molti amici e continuiamo a tornare spesso, soprattutto in Vietnam, perché parte del nostro cuore è lì. Quello che è successo è stato sicuramente difficilissimo da affrontare, ne portiamo ancora i segni dentro di noi, ma sappiamo anche che faceva parte della professione che amava e che ha svolto fino all’ultimo. Quindi, il nostro ricordo di quei posti è soprattutto fatto di istantanee bellissime.

Il 29 marzo ricorre l’anniversario della morte. Nel suo nome è stata fondata l’Associazione italiana Carlo Urbani (Aicu). Qual è l’insegnamento più grande che ha lasciato a voi figli?
L’Aicu ha una grande responsabilità: quella di ricordare e far conoscere la figura di mio padre, ma soprattutto cercare di portare avanti il suo lavoro nel modo in cui lo intendeva lui, a disposizione dei più deboli. L’eredità che papà ci ha consegnato è enorme, a partire dalla passione nell’impegno quotidiano e nel sapersi mettere a disposizione degli altri. Per l’anniversario di quest’anno, il prossimo 28 marzo verranno premiati i vincitori del Premio Carlo Urbani 2019, tre borse destinate a personale sanitario che andranno a supportare progetti in diverse aree (Tanzania, Senegal e Roma) in collaborazione con altre realtà. Il giorno seguente, invece, presso il teatro si Santa Vittoria in Matenano condivideremo un ricordo di papà con letture, musiche e immagini.

Anche lei ha messo al primo posto l’impegno verso il prossimo, lavorando in Africa con l’organizzazione umanitaria Intersos. Cosa significa spendere la vita in missione?
Le esperienze vissute insieme a mio padre hanno sicuramente facilitato questa scelta. Il lavoro delle organizzazioni umanitarie come Intersos è fondamentale per supportare popolazioni stremate dalla guerra o da catastrofi naturali: poter essere parte di tutto questo è tutto ciò che ho sempre voluto. Mi ritengo quindi fortunato, perché proprio come ebbe a dire lui sono riuscito “a fare dei miei sogni la mia vita e il mio lavoro”. È questa la frase che ha sempre tratteggiato la figura di Carlo Urbani che, nella veste di presidente di “Msf Italia”, nel 1999 ebbe l’onore di andare a Oslo a ritirare personalmente il premio Nobel per la Pace assegnato all’associazione. Un riconoscimento a cui si aggiunge quello del mondo intero, al medico eroe che con il suo coraggio ha salvato migliaia di vite.

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