Una sanità sempre più spaccata tra Nord e Sud. Cresce la mobilità sanitaria: con le disuguaglianze tra le Regioni aumenta il numero dei pazienti in fuga dal Meridione verso il Nord per curarsi: oltre mezzo milione nel 2022. A fronte della Lombardia che nel 2023 ha incassato la cifra record di un miliardo di euro, con una spesa di 412 milioni e quindi un saldo positivo di ben 579 milioni, e di Emilia-Romagna, Veneto e Toscana che, se pure con numeri meno eclatanti, vantano saldi positivi, tutte le altre Regioni vanno in negativo. Fanalino di coda la Calabria (-295 milioni). Intervista con Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che parla di “frattura strutturale” destinata ad aggravarsi con l’autonomia differenziata. Per ridurre la migrazione sanitaria e promuovere un accesso più equo alle cure su tutto il territorio nazionale, afferma, “serve un piano strategico per potenziare l’offerta di servizi al Sud”.
Presidente, secondo la Conferenza delle Regioni, il valore della mobilità sanitaria nel 2022 è stato di 4,6 miliardi di euro, contro i 4,3 dell’anno precedente, 300 milioni in più. Quali sono le implicazioni sanitarie, sociali ed economiche di questo fenomeno in continua espansione?
La mobilità sanitaria riflette le profonde diseguaglianze nell’offerta di servizi sanitari tra le varie Regioni e, soprattutto, tra il Nord e il Sud del Paese. Siamo ormai di fronte a
una “frattura strutturale”, destinata ad essere aggravata dall’autonomia differenziata, che in sanità legittimerà normativamente il divario Nord-Sud,
amplificando le inaccettabili diseguaglianze nell’esigibilità del diritto costituzionale alla tutela della salute. La crescita della mobilità sanitaria evidenzia il fallimento delle Regioni del Sud nel garantire cure adeguate ai propri cittadini ed ha gravi conseguenze per i residenti nel Mezzogiorno costretti a cercare risposte assistenziali altrove. Inoltre, chi è costretto a spostarsi vede ridotta la propria qualità di vita, con disagi economici e familiari. Infine, il trasferimento di risorse verso il Nord sottrae fondi alle Regioni del Mezzogiorno.
Una spaccatura che si accentua sempre più a fronte di un Ssn profondamente indebolito. Tra l’altro, sono proprio le Regioni più performanti quelle a chiedere maggiori autonomie in sanità. Da sempre lei ha chiesto di espungere dal progetto di autonomia differenziata la tutela della salute. Perché?
È un’istanza che, purtroppo, non è stata accolta dalla maggioranza in Parlamento, né sostenuta con fermezza dalle opposizioni. L’attribuzione di maggiori autonomie rafforzerà le ricche Regioni del Nord, indebolendo ulteriormente quelle del Sud. Alcuni esempi: la maggiore autonomia in termini di contrattazione del personale provocherà una fuga dei professionisti sanitari verso le Regioni in grado di offrire condizioni economiche più vantaggiose, impoverendo così il capitale umano del Mezzogiorno; l’autonomia nella definizione del numero di borse di studio per scuole di specializzazione e medici di medicina generale determinerà una distribuzione asimmetrica di specialisti e medici di famiglia; ancora, le maggiori autonomie sul sistema tariffario rischiano di aumentare le diseguaglianze nell’offerta dei servizi e favorire l’avanzata del privato. Ecco perché in questo contesto
l’autonomia differenziata, non solo affosserà definitivamente la sanità del Sud, ma darà anche il colpo di grazia al Ssn.
Quali sono le prestazioni più richieste/erogate in mobilità?
Principalmente ricoveri ospedalieri. Si tratta di interventi spesso non disponibili in maniera capillare al Sud, che costringono migliaia di cittadini a spostarsi verso il Nord, dove l’offerta di servizi è più ampia e di migliore qualità. Negli ultimi anni, tuttavia, è aumentata anche la mobilità per le prestazioni ambulatoriali e per l’accesso ai farmaci, soprattutto nelle zone di confine tra Regioni, quando tali servizi non sono offerti dalla propria Regione a carico del Ssn. Ovviamente non mancano anche fenomeni di migrazione sanitaria per ricoveri ospedalieri per patologie minori, che potrebbero tranquillamente essere effettuati nella propria regione.
Esiste anche una mobilità verso le strutture private. Da un vostro studio pubblicato nei mesi scorsi si evince che oltre 1 euro su 2 speso per ricoveri e prestazioni specialistiche finisce nelle casse del privato accreditato.
L’espansione della mobilità verso le strutture private evidenzia la crescente fragilità del Ssn. Parliamo di oltre 1,7 miliardi di euro per ricoveri e prestazioni specialistiche che finiscono nelle casse del privato, rispetto a 1,4 miliardi nelle casse delle strutture pubbliche. Il volume dell’erogazione di ricoveri e prestazioni specialistiche da parte di strutture private varia notevolmente tra le Regioni ed è un indicatore della presenza e della capacità attrattiva delle strutture private accreditate, oltre che dell’indebolimento di quelle pubbliche. Infatti, accanto a Regioni dove la sanità privata eroga oltre il 60% del valore totale della mobilità attiva come Molise, Puglia, Lombardia e Lazio, ci sono Regioni dove le strutture private erogano meno del 20% del valore totale della mobilità: Valle D’Aosta, Umbria, Sardegna, Liguria, Provincia autonoma di Bolzano e Basilicata.
Con l’autonomia differenziata, oltre al rischio di assestare il colpo di grazia alla sanità del Sud, non si corre anche il pericolo che al Nord si profili un rischio sovraccarico da mobilità sanitaria?
Esattamente,
si rischia di innescare un circolo vizioso di inefficienza.
Il gap Nord-Sud si allarga, contribuendo a sovraccaricare i sistemi sanitari delle Regioni settentrionali che a loro volta rischiano di non riuscire a garantire l’accesso alle prestazioni sanitarie per i propri residenti.
Serve un piano strategico per potenziare l’offerta di servizi al Sud, al fine di ridurre la migrazione sanitaria e promuovere un accesso più equo alle cure su tutto il territorio nazionale.
Piattaforma nazionale di monitoraggio delle prestazioni in capo ad Agenas; Ispettorato generale di controllo sull’assistenza sanitaria presso il ministero della Salute; Cup unico regionale o interregionale con tutte le prestazioni offerte da pubblico e privato convenzionato; aumento tetto di spesa per il personale sanitario, con la prospettiva di abolirlo dal 1° gennaio 2025. Queste misure contenute nel decreto-legge contro le liste d’attesa potrebbero contribuire a contrastare la mobilità sanitaria? Se sì, in che modo? In caso contrario, quali strumenti occorrerebbe mettere in campo?
Al momento è impossibile fare previsioni soprattutto perché si attendono almeno sette decreti attuativi perché il Dl entri a pieno regime e i tempi di attuazione delle misure previste sono medio-lunghi: ovvero i benefici per i cittadini non saranno immediati. Peraltro, ho già espresso in sede di audizione parlamentare numerose perplessità sulla potenziale efficacia del Dl che si limita ad inseguire la domanda aumentando l’offerta: una strategia perdente perché, esaurito nel breve periodo l’“effetto spugna”, l’incremento dell’offerta poi induce un ulteriore aumento della domanda. Inoltre il Dl è carente di interventi efficaci per risolvere i problemi strutturali del Ssn che alimentano l’allungamento delle liste di attesa. Queste rappresentano il sintomo più evidente di un indebolimento organizzativo e soprattutto professionale per risolvere il quale sono necessari consistenti investimenti e coraggiose riforme.
In particolare, investendo sul personale sanitario e aumentando l’attrattività del Ssn.
Il Dl invece, puntando sulla defiscalizzazione degli straordinari (più lavori, più ti pago), rischia di stremare il personale già in servizio, alimentando ulteriormente la fuga dei professionisti dal Ssn.