Sindrome di Down. Ricerca va avanti, società ancora ferma a stereotipi

In occasione della Giornata, presentata la V Conferenza internazionale sulla sindrome, in programma nella Capitale dal 5 all’8 giugno. Promosso dall’Associazione no profit Trisomy 21 research society che riunisce 600 ricercatori di 25 Paesi, l’evento sarà l’occasione per ricercatori e famiglie di confrontarsi e fare il punto sugli studi scientifici

Persone con bisogni e desideri alle quali la società pone ancora forti pregiudizi. Alla sindrome di Down e a chi ne è affetto, è dedicata la Giornata mondiale (21 marzo), istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2012, e che quest’anno lancia la campagna internazionale “Stop agli stereotipi”. In occasione della Giornata, in Campidoglio è stata presentata la V Conferenza internazionale sulla sindrome, in programma nella Capitale dal 5 all’8 giugno, presso il centro congressi Nuvola. Promosso dall’Associazione no profit Trisomy 21 research society che riunisce 600 ricercatori di 25 Paesi, l’evento sarà l’occasione per ricercatori e famiglie di confrontarsi e fare il punto sugli studi scientifici.
Grazie alla ricerca, infatti, l’aspettativa e la qualità della vita delle persone con sindrome di Down è notevolmente migliorata. “Oggi l’80% raggiunge i 55 anni e uno su dieci i settanta”, spiega Eugenio Barone, ordinario di Biochimica della Sapienza Università di Roma. Anche l’accesso alle cure oggi è più semplice: “questo – continua il docente – ha migliorato la qualità della vita. Inoltre le famiglie sono più avvezze a sostenere i figli, a integrarli e supportarli”.

Durante l’appuntamento internazionale di giugno, si parlerà del rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer come per tutti gli adulti. “Diversi studi – ricorda Barone – mostrano che già a partire dai quarant’anni le persone con sindrome di Down presentano livelli significativi di proteina beta amiloide e di proteina tau che sono depositi proteici anomali, considerati segni distintivi della malattia di Alzheimer a livello cerebrale. In questo caso, la ricerca scientifica sta facendo passi significativi a livello internazionale e si sta lavorando affinché le persone con sindrome di Down possano essere incluse nelle sperimentazioni cliniche già avviate che stanno testando nuove molecole per la cura della malattia di Alzheimer. Questo è un obiettivo – conclude – che fino a qualche anno fa era impensabile, mentre oggi abbiamo colleghi che se ne stanno occupando e che presenteremo durante la prossima Conferenza di giugno”.
In Italia circa un bambino su mille nasce con questa condizione e ad oggi si contano circa 38mila persone (di cui 23mila già adulte) mentre nel mondo sono 5,4 milioni. “La sindrome – aggiunge Barone – è caratterizzata dalla trisomia del cromosoma 21 e rappresenta la più frequente causa di disabilità intellettiva”. A livello di assistenza sanitaria, nel nostro Paese si sta cercando di rafforzare la fase di transizione dall’età pediatrica a quella dell’adulto. “Oggi abbiamo dei centri eccellenti per le cure pediatrica ma meno focalizzati sull’adulto”, osserva Graziano Onder, direttore dell’unità di medicina e cure palliative del Policlinico universitario Agostino Gemelli Irccs e responsabile della segreteria scientifica dell’Istituto superiore di Sanità. “Al Gemelli – continua – abbiamo stretto una collaborazione con l’ospedale pediatrico Bambin Gesù, mentre l’Istituto superiore di sanità sta lanciando un’iniziativa per censire i centri che si occupino della sindrome a livello nazionale per creare un network di studio”. Della collaborazione fra le due strutture capitoline, nel delicato passaggio verso l’età adulta, parla anche Alberto Villani, responsabile dell’unità di pediatria generale dell’ospedale pediatrico Bambin Gesù: “il nostro centro – racconta – accoglie 900 bambini l’anno con sindrome di Down e cerca di garantire al meglio l’accoglienza. Si instaura un legame fortissimo e, tutte le volte in cui avviene il passaggio, la sensazione può essere di distacco. La collaborazione con il Policlinico Gemelli e i confronti con personalità internazionali ci ha dato modo però di mettere a frutto un’assistenza migliore”.
Nel corso dell’evento in Campidoglio, sono stati inoltre presentati due video, uno della Associazione italiana persone Down (https://www.youtube.com/watch?v=WGYKvazx2Q0) e uno di CoorDown, Coordinamento nazionale associazioni delle persone con sindrome di Down (https://www.youtube.com/watch?v=9HpLhxMFJR8), entrambi con l’obiettivo di denunciare gli stereotipi ancora frequenti nella società. “Lo stereotipo è soprattutto culturale”, afferma Roberto Speziale, presidente nazionale dell’Associazione nazionale di famiglie e persone con disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo (Anfass). “Quante volte – chiede – la sindrome viene usata nel linguaggio dei giovani, e non solo dei giovani, per denigrare? Non si capisce che dietro questo linguaggio si feriscono i sentimenti e si danno messaggi alla società che crea poi pregiudizi e discriminazione. Il linguaggio – ribadisce – è il primo elemento”.
Fra le persone con sindrome di Down presenti all’evento in Campidoglio c’è Irene, 24 anni, che confida di essere stata vittima di pregiudizi a scuola, da parte sia dei compagni sia di un’insegnante. “La mia professoressa – racconta – non voleva che prendessi la maturità scientifica, ma ce l’ho fatta. Oggi sono indipendente e so cucinare. Giudicare non è bello ed è una mancanza di rispetto. Anche i giornalisti – lamenta – hanno scritto la parola mongoloide che è un messaggio molto brutto”. Alfredo invece spiega che dalla mamma insegnante di italiano ha appreso a parlare e dal padre a usare il computer: “mi portavano in qualsiasi posto ma da grande ho imparato a fare le cose da solo, a prendere i mezzi e a lavorare”.
Per Antonella Falugiani, presidente di Coordown, sono stati compiuti dei passi in avanti per superare gli stereotipi. “Tutti i giorni però – spiega – va fatto un lavoro con i giovani e gli adulti con sindrome di Down per rappresentare i loro bisogni e desideri. Uno stereotipo riguarda la sessualità – evidenzia –, c’è tanto bisogno di formazione e di supporto alle famiglie su questo tema. Per quanto riguarda l’integrazione lavorativa al sud c’è ancora da fare sia perché ci sono meno aziende sia perché le famiglie hanno più timore. È un passaggio culturale ed è per questo che è importante far conoscere gli esempi positivi”.

Altri articoli in Italia

Italia