La più grande acciaieria italiana al capolinea. Nuovo commiato per l’industria pesante

Cronaca di una morte annunciata, anche se il decorso della malattia non è ancora terminato. Tanto s’è detto e soprattutto s’è fatto per arrivare al capolinea della più grande acciaieria italiana, l’ex Ilva di Taranto. Le convulsioni societarie; il partner indiano per il quale si sono fatti ponti d’oro e clausole favorevolissime (salvo il fatto che poi s’è dimostrato disinteressato alla gestione e agli investimenti da fare); governi italiani che fanno e disfano… tutto sembra indirizzare l’acciaieria pugliese verso il tramonto.

foto SIR/Marco Calvarese

Cronaca di una morte annunciata, anche se il decorso della malattia non è ancora terminato. Tanto s’è detto e soprattutto s’è fatto per arrivare al capolinea della più grande acciaieria italiana, l’ex Ilva di Taranto. Le convulsioni societarie; il partner indiano per il quale si sono fatti ponti d’oro e clausole favorevolissime (salvo il fatto che poi s’è dimostrato disinteressato alla gestione e agli investimenti da fare); governi italiani che fanno e disfano… tutto sembra indirizzare l’acciaieria pugliese verso il tramonto. Con grande gioia di chi da anni avversa l’enorme stabilimento produttivo, considerato un cancro inquinante nel cuore di una città.

L’ultima scelta: salutare il socio privato (e non sarà facile); trovarne altri (idem); immettere molti soldi pubblici per dare “continuità aziendale”, molti di più per una cassa integrazione straordinaria che coinvolge ben 5mila addetti e chissà mai quando terminerà. E magari risarcire pure quell’indotto che campava attorno alla grande fabbrica. Forse è l’inizio di una pur tardiva soluzione; forse è solo accanimento terapeutico e assistenzialismo. Intanto la fabbrica langue.

L’impatto ambientale era ed è vero, così come il fondatissimo rischio di lasciare lì per molti anni la fabbrica a marcire lentamente. Ma questi sono “problemi” locali, si dirà.

La questione, per l’Italia e il suo sistema economico, è un’altra: l’addio alla cosiddetta industria pesante, insomma alla chimica, alla metallurgia, al tessile, alla siderurgia, tra un po’ pure a certa metalmeccanica visto il continuo calo produttivo di automobili sul suolo tricolore (meno di mezzo milione, il triplo in Spagna).

Non produciamo: trasformiamo usando materie prime altrui. Il che ci lega mani e piedi appunto agli “altrui”. Se Taiwan non ci manda i microchip o il prezzo dell’alluminio schizza al doppio, la nostra manifattura va in tilt.

Le industrie inquinano, gli operai costano. Così si è preferito trasferire le prime all’estero, usando manodopera che chiede poco o niente. Orizzonte irreversibile, nel mondo globalizzato.

Allora bisognerebbe puntare sulle produzioni ad alto valore aggiunto, per le quali però siamo al livello zero: l’innovazione fiorisce da altre parti, pure il colosso Intel alla fine ha ammesso che non produrrà nessun chip sul suolo italiano, avendo scelto altri siti. Sull’intelligenza artificiale leggiamo articoli sui giornali e nel nostro mercato delle telecomunicazioni parlano tutti lingue straniere.

Rimaniamo grandi costruttori di ponti, dighe e strade (sempre all’estero); conserviamo una cantieristica navale di livello; non mancano acciaierie di qualità. Ma il grosso sta svanendo e l’illusione di soppiantarlo con il “terziario avanzato” e il turismo è, appunto, un’illusione. Siamo un grande Paese industrializzato, non Cipro o Malta.

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