Attentati alle chiese di Roma 30 anni dopo. Alberti (filosofo), “coinvolgere la Chiesa cattolica nel piano per battere le mafie”

Il 1992 e 1993 sono stati in Italia anni in cui gli attentati con le bombe hanno contraddistinto l’operato violento dell’organizzazione mafiosa di cosa nostra che, con l’intento di creare un clima di tensione e paura, arrivò a colpire anche due chiese di Roma nella notte tra il 27 e 28 luglio 1993, causando 22 feriti ed ingenti danni a San Giorgio in Velabro ed alla basilica di San Giovanni in Laterano. Il punto della situazione sulle mafie con il filosofo Vittorio Alberti: "L'anniversario deve essere un'occasione per ragionare e per agire, concretizzare, non deve essere un'occasione per dire: oh, che tragedia!"

(Foto Siciliani - Gennari/SIR)

foto Marco Calvarese

Il 1992 e 1993 sono stati in Italia anni in cui gli attentati con le bombe hanno contraddistinto l’operato violento dell’organizzazione mafiosa di cosa nostra che, con l’intento di creare un clima di tensione e paura, arrivò a colpire anche due chiese di Roma nella notte tra il 27 e 28 luglio 1993, causando 22 feriti ed ingenti danni a San Giorgio in Velabro ed alla basilica di San Giovanni in Laterano. “L’atmosfera in Italia era particolarmente grave perché cambiava la storia in quel periodo e le bombe a Roma dettero l’impressione di un cambiamento radicale, rivoluzionario che ci colpì profondamente. Tutte le bombe di quel periodo ci dettero l’impressione, anche a noi giovanissimi, di radicale mutamento ed oscuro presentimento”. Queste le parole di Vittorio Alberti, filosofo e officiale per i temi politici del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale della Santa Sede, che sottolinea come quelle bombe abbiano rappresentato una condizione sulla quale oggi occorrerebbe riflettere, perché sono la prova che le mafie non sono criminalità organizzata e basta. “In quel momento le mafie si contrapposero al potere legale ma in una sorta di terreno magmatico ed ambiguo che fa comprendere che i due livelli si mescolano, si intrecciano, agiscono su un unico territorio per governarlo. È una questione di poteri. Occuparsi di mafie attraverso la lettura di quel periodo, delle stragi e delle bombe, da Falcone a Borsellino a risalire, ma andando indietro anche Chinnici ed altro, fa capire che cos’è una mafia, in questo caso capace di raggiungere un livello che si mescola con i poteri. Occuparsi di mafia non significa manette, carceri, repressione, significa capire la politica generale, il potere “legale”. È li che si annida il principale problema, molto più li che nei criminali effettivi”. Una disamina che parte dalla precisazione del termine mafie al plurale, perché presenti in tutti gli affari del mondo e che, come capitato in Italia, si evolve con la società, infatti dal periodo stragista si è passati a quello che Alberti definisce “inabissamento”.

“Oggi le mafie sono ancora più pericolose, perché sono ancora più mescolate con il sistema legale. Ad inquinare l’economia, ad inquinare qualunque ganglio della democrazia e delle istituzioni”,

afferma il filosofo che identifica nella corruzione il linguaggio primario delle mafie italiane e quindi non occorre attirare l’attenzione con la violenza, che peraltro continua comunque a sussistere come minaccia. La conseguenza è che la situazione peggiora maggiormente a livello culturale, sociale e di politica generale, evidenziando come il problema mafie sia un problema di democrazia generale.

“Noi stiamo ricordando un anniversario, ogni anno si ricordano gli anniversari di Falcone e Borsellino. Se vissute in modo superficiale, rischiano di trasformarsi in kermesse opportunistiche nelle quali si va, si piange con il viso solcato dalle lacrime col rischio però che, finita la cerimonia, si ricominci a fare la stessa cosa. Se si tratta solo di ricordare semplicemente dei modelli e la memoria non si concretizza in termini reali e seri, in un atteggiamento uguale e contrario, si fa solo un pessimo servizio”. Questa la critica a un atteggiamento generale che deve essere scosso attraverso l’impegno culturale, organizzato, non quello della retorica e degli slogan. “La lotta alla mafia è un problema di poteri legali, perché le opposizioni le incontri li: per ignoranza, per paura, per collusione, per incapacità, per opportunismo di gente che non vuole toccare questi argomenti per non rischiare di compromettere la propria carriera. Il livello culturale deve spingerti a riflettere e a chiederti: perché sto ricordando l’anniversario delle bombe? Cosa hanno provocato in me? Questo è l’approccio filosofico alle cose, cioè capire che tu stai facendo una cosa e in quel momento ti chiedi cos’è per te quella cosa”. Essenziale è elaborare un ragionamento di politica culturale, cioè comprendere perché la storia d’Italia ha portato alla formazione di questa specifica forma di criminalità e partire da lì con un’educazione sistematica e continuativa, sostenendo i docenti non solo con la testimonianza di un personaggio che un giorno va a scuola e poi sparisce.

“L’anniversario deve essere un’occasione per ragionare, per agire e concretizzare e non un modo per ridurre tutto a un’occasione per dire: oh, che tragedia!”, aggiunge Alberti che sottolinea come anche la scelta degli obiettivi degli attentati a Roma, così come 2 mesi prima a Firenze, delinea  la forza un’organizzazione che va oltre il semplice gruppo criminale e che per essere sconfitta ha bisogno di un’azione su 3 livelli: politico, repressivo e di prevenzione sociale.

“Una delle principali forze della società che va maggiormente coinvolta nel piano per battere le mafie, è la Chiesa cattolica. Con Papa Francesco finalmente questi argomenti vengono affrontati in modo sistematico. Il problema è che questo argomento manca nei testi fondamentali della Chiesa, c’è un vuoto dottrinale nel compendio della dottrina sociale della Chiesa, nel Diritto canonico e nel catechismo”.

Un appello, quello del filosofo, teso alla piena realizzazione delle parole di Papa Francesco che “ha parlato in continuazione di corruzione e di mafie”. Così come di quelle di “Giovanni Paolo II nella sua celebre invettiva contro la mafia pronunciata ad Agrigento”; di Benedetto XVI che nel 2010, nel suo unico viaggio da pontefice in Sicilia parlò contro la mafia e incitò i giovani a non avere paura. Secondo Vittorio Alberti sarebbe importante che la Chiesa istituzionale, come presenza viva e reale di questo mondo, desse compimento al magistero dei papi attraverso un rinnovamento dottrinale, mettendo in atto una pastorale ad hoc, a livello diplomatico, su questi temi. “Sarebbe un modo per anticipare e affrontare tanti dilemmi in questo senso perché credo – conclude Alberti – che quella della lotta alla mafia sia una delle più grandi sfide storiche del cattolicesimo, vista dall’esterno, sia che si creda o non si creda in Dio. Una formidabile e storica occasione di rapporto anche con gli stati”.

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