Ergastolo ostativo: la Corte costituzionale ripassa le carte alla Corte di Cassazione

Sull'ergastolo ostativo la Corte costituzionale ripassa le carte alla Corte di Cassazione, da cui la questione di legittimità era stata sollevata in origine. Sarà quest'ultima a valutare se il recente decreto-legge con cui il governo ha modificato le norme oggetto del giudizio azzera o no tutti i dubbi di costituzionalità che a suo tempo la stessa Cassazione aveva reputato meritevoli di essere sottoposti ai giudici della Consulta, nonché a “procedere a una nuova valutazione della loro non manifesta infondatezza”, come spiega il comunicato-stampa diffuso dalla Corte costituzionale in attesa del deposito della sentenza.

Photo SIR/CdE

Sull’ergastolo ostativo la Corte costituzionale ripassa le carte alla Corte di Cassazione, da cui la questione di legittimità era stata sollevata in origine. Sarà quest’ultima a valutare se il recente decreto-legge con cui il governo ha modificato le norme oggetto del giudizio azzera o no tutti i dubbi di costituzionalità che a suo tempo la stessa Cassazione aveva reputato meritevoli di essere sottoposti ai giudici della Consulta, nonché a “procedere a una nuova valutazione della loro non manifesta infondatezza”, come spiega il comunicato-stampa diffuso dalla Corte costituzionale in attesa del deposito della sentenza.
Per ergastolo ostativo vanno intese specificamente quelle disposizioni che non consentono al condannato “per delitti di contesto mafioso, che non abbia utilmente collaborato con la giustizia, di essere ammesso al beneficio della liberazione condizionale, pur dopo aver scontato la quota di pena prevista e pur risultando elementi sintomatici del suo ravvedimento”.
La Corte costituzionale (in sintonia con un pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo) aveva sostanzialmente bocciato tali norme a causa dell’automatismo che escludeva a priori i condannati in questione dai benefici carcerari – espressione del civilissimo principio costituzionale della finalità rieducativa della pena – senza valutare la possibilità che la mancata collaborazione potesse essere il risultato di circostanze oggettive (perché ad esempio i fatti a cui ci si riferisce sono stati già completamente accertati) e non il segno di perduranti rapporti con la criminalità organizzata. Né la Consulta né la Cedu hanno contestato l’idea che la mancata collaborazione potesse comportare una verifica più rigorosa dei requisiti per accedere ai benefici. Il nodo era l’automatismo. La Corte costituzionale, peraltro, aveva dato un anno di tempo alle Camere per adeguare in modo ordinato la normativa, così da evitare contraccolpi pericolosi sul piano della lotta alla mafia. Alla scadenza di questo periodo, poiché nel frattempo la riforma era stata approvata quasi all’unanimità da un ramo del Parlamento, la Consulta aveva deciso di attendere altri sei mesi, fissando l’udienza all’8 novembre, per consentire il completamento dell’iter che però è stato interrotto dalla fine anticipata della legislatura. Nell’imminenza della decisione della Corte costituzionale il governo è corso ai ripari con un decreto-legge che recepisce il testo approvato dalla Camera il 31 marzo.

“Le nuove disposizioni – si legge nel comunicato della Consulta – incidono immediatamente e direttamente sulle norme oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, trasformando da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità che impedisce la concessione dei benefici e delle misure alternative a favore di tutti i condannati (anche all’ergastolo) per reati cosiddetti ‘ostativi’, che non hanno collaborato con la giustizia. Costoro sono ora ammessi a chiedere i benefici, sebbene in presenza di nuove, stringenti e concomitanti condizioni, diversificate a seconda dei reati che vengono in rilievo”.

Di qui il ritorno degli atti in Cassazione. Ma la storia potrebbe avere in futuro ulteriori sviluppi perché il decreto – che intanto dovrà essere convertito in legge – è stato già criticato da molti giuristi, nella forma e nel merito. Fa discutere in particolare la norma che pone in capo al condannato l’onere di provare di aver interrotto definitivamente i rapporti con la criminalità. Non è chiaro come questo possa concretamente avvenire. Una sorta di prova “diabolica”, impossibile da dimostrare.

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