Mamme detenute e bambini. Apg23: una testimonianza di una casa famiglia che sta facendo accoglienza

È la seconda volta, in una decina di anni, che Maria Rossi, nome di fantasia, ospita nella sua casa famiglia una donna che deve ancora finire di pagare il suo debito con la giustizia ma che ha un figlio con sé. “È un’esperienza faticosa ma bella”, ci racconta

(Foto: ANSA/SIR)

A fine maggio la Camera dei deputati ha approvato una proposta di legge volta ad ampliare la tutela dei figli minori di genitori soggetti a una misura detentiva, attraverso l’esclusione del ricorso al carcere e la valorizzazione dei cosiddetti Icam, Istituti a custodia attenuata per detenute madri. Il provvedimento deve ora avere il via libera definitivo al Senato. La Comunità Papa Giovanni XXIII (Apg23)è da anni impegnata a denunciare la presenza in carcere di “bimbi reclusi” con le loro madri e a promuovere pene alternative alla detenzione per mamme e bambini. L’approvazione della proposta di legge alla Camera, aveva commentato al Sir il presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, Giovanni Paolo Ramonda, “è un primo passo fondamentale perché viene riconosciuta la dignità del bambino, che insieme alla sua mamma, che evidentemente ha compiuto dei reati, possa rimanere nel legame di relazione madre-figlio, ma al di fuori della struttura carceraria, accompagnato in un percorso di accoglienza nelle case famiglia o nelle comunità che hanno anche la competenza di sostenere un processo educativo della mamma nei confronti del bambino”. E noi abbiamo raccolto la testimonianza di Maria Rossi – nome di fantasia, per tutelare le persone che accoglie – che proprio a fine maggio ha riaperto le porte della sua casa famiglia, appartenente alla Comunità Papa Giovanni XXIII, a una mamma detenuta con un bimbo, dopo una prima esperienza alcuni anni fa.

(Foto: ANSA/SIR)

“La nostra famiglia è composta da noi genitori, quattro figli, tre naturali e uno in affido, e un’anziana disabile – racconta al Sir Maria Rossi – e già sette/otto anni fa abbiamo accolto una donna da un carcere romano, dove aveva scoperto di essere incinta. La donna soffriva di crisi epilettiche e ci è stata segnalata, così noi come Comunità ci siamo adoperati per accoglierla. È uscita dal carcere un mese prima del parto ed è stata ospitata prima in una comunità per adulti, per tre/quattro mesi. Da noi madre e figlio sono stati due anni. È stata un’esperienza molto bella. Ci ha detto di essere innocente e che era stata incastrata, come in realtà affermano tutti quelli che stanno in carcere, ma forse era vero: era una persona colta e capace di relazionarsi con gli altri, discreta, dava una mano in casa, disponibile con la signora anziana disabile e affidabile. Il bambino era meraviglioso e in quel periodo avevo una bimba in affido della stessa età: sono cresciuti come fratelli, erano i più piccoli di casa”. Maria ci tiene a evidenziare: “Questo bimbo ha vissuto in un contesto familiare piuttosto che in un carcere e la mamma, agli arresti domiciliari, pur dovendo seguire tutte le sue prescrizioni, è riuscita a curarsi. Educativamente era una brava mamma e non solo con il suo: anche rispetto ai miei figli sapeva porsi in forma educativa. Siamo restati in contatto per un po’ di tempo, l’anno scorso ci ha mandato le ultime foto del bambino”. Secondo Rossi, “da questa esperienza si può trarre la lezione che è giusto che le persone scontino la loro pena, ma è controproducente lasciarle in carcere in condizioni precarie, dove possono accumulare più rabbia. Nell’esperienza in casa famiglia, con tutte le giuste limitazioni del caso, c’è la possibilità di guardare con più serenità alla propria vita e ai propri errori, di dare una mano ripagando il proprio debito e spendendosi per aiutare gli altri, in un rapporto di mutuo aiuto, di essere privati della libertà sì, ma in una forma accettabile, senza accumulare frustrazione”. Maria non si nasconde: “L’accoglienza è sempre faticosa, ma ne vale la pena, questo ci ha spinto come famiglia ad aprirci”.

(Foto: ANSA/SIR)

Dopo questa prima esperienza la famiglia Rossi, a fine maggio, proprio mentre la Camera approvava la proposta di legge “Tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”, ha aperto di nuovo le sue porte a una donna, questa volta con un figlio di due anni. “A più riprese, ha già scontato tredici anni di carcere. Ha una storia molto difficile alle spalle, con tanta sofferenza vissuta sulla sua pelle sin da giovanissima, anche per la violenza subita. Il bambino è nato in un periodo in cui non era in carcere e per un periodo è stato affidato a una parente. Poi la signora ha chiesto il ricongiungimento con il figlio ed è stata trasferita in un Icam”. Maria si confida: “Quando è arrivata da noi, l’impatto non è stato semplicissimo perché faceva confronti tra la casa famiglia e l’Icam, dove ci sono spazi, come la saletta giochi, e tempi pensati proprio per i piccoli, ma io le ho spiegato che qui il bambino crescerà in una famiglia dove le persone cercano di volersi bene. E i giochi per il bambino non sono in una saletta apposita, è vero, ma nella stessa stanza che condivide con il figlio. Poi man mano si è aperta e ha raccontato che di sua stessa iniziativa non andava in questa saletta giochi perché spesso le mamme litigavano tra loro”. Qui, ribadisce Rossi, “invece c’è la possibilità di crescere un figlio, che non ha alcuna colpa, in un contesto familiare e tutelante. Il bimbo può andare al mare o a far la spesa, avere una vita normale”. Ora, conclude Maria, “la donna cerca di relazionarsi con noi, dare una mano, per esempio se non ci sono in casa prepara il pranzo, mi aiuta a pulire. È una mamma adeguata e rispettosa nei confronti del figlio”. Sarà un’accoglienza breve, perché finirà presto di scontare la pena, ma che offre la possibilità “di assaporare una vita normale, serena”.

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