Il racconto di Irene Tomedi, restauratrice della Sindone: “Una grande emozione e una grande responsabilità”

A 25 anni dall’incendio che, nella notte tra l’11 e il 12 aprile 1997 divampò nella Cappella del Guarini - dove, in una teca d’argento, era conservata la Sacra Sindone, il Sir ha incontrato Irene Tomedi nel suo laboratorio a Bolzano. Ricorda ancora l'emozione: “Ero consapevole della grande responsabilità che ci era stata affidata. Da qui il mio timore”

(Foto archivio Tomedi)

“Nel vederla lì, davanti a me, ho provato una grande emozione come grande era la paura di toccarla”.

Si guarda le mani, Irene Tomedi, mentre con la mente torna alla sera del 20 giugno 2002. Sono trascorsi 20 anni da quando, Mechthild Flury Lemberg la chiama per restaurare insieme a lei, nella “sacrestia nuova” del duomo di Torino, la Sacra Sindone.

“Ero consapevole della grande responsabilità che ci era stata affidata. Da qui il mio timore”.

A 25 anni dall’incendio che, nella notte tra l’11 e il 12 aprile 1997 divampò nella Cappella del Guarini – dove, in una teca d’argento, era conservata la Sacra Sindone, il Sir ha incontrato Irene Tomedi nel suo laboratorio a Bolzano.

Nella stanza, illuminata da grandi lucernari e da una serie di neon ci sono due grandi tavoli, uno dei quali in vetro, una bilancia di precisione, armadietti e cassetti, scaffali su cui sono ordinati voluminosi raccoglitori, un manichino da sarto, aghi, filo, campioni di tessuto, lampade di precisione e poi un lavandino, ampolle di diverse misure e un fornelletto elettrico.

Entrare nel laboratorio di Irene Tomedi è come entrare in una sorta di sala operatoria. Qui i tessuti più antichi e fragili vengono “curati” e riportati al loro splendore originale. Nel rispetto della loro storia e della loro natura. Dal 1983.

(Foto Irene Argentiero)

Nata a Bolzano, Tomedi – che oggi è una delle più rinomate restauratrici tessili d’Italia (e non solo) – dopo aver frequentato l’istituto d’arte a Ortisei, ha deciso di dedicarsi al restauro. “Il mio desiderio era quello di occuparmi di tele e affreschi, ma l’allora sovrintendente ai beni culturali Karl Wolfsgruber, mi disse che c’erano già troppi esperti in quel campo – racconta – mentre in provincia non c’erano restauratori tessili. Ho frequentato, quindi, l’unica scuola di questo tipo attiva in quel momento, vale a dire quella della Fondazione Abegg, a Riggisberg, in Svizzera. Dopo un corso di tre mesi dedicato alle tecniche di tessitura, ho iniziato a studiare con Mechthild Flury Lemberg”. Ed è proprio nel laboratorio della Flury Lemberg, che Tomedi ha iniziato a coltivare quello che più che un mestiere è una vera e propria vocazione. Perché un tessuto antico non è solo un oggetto da preservare dai segni del tempo, ma è un qualcosa che – nell’intreccio di trama e ordito – custodisce pagine di storia, volti di persone, frammenti di vita. Il ricostruire intrecci di trama e ordito diviene, allora, un lavoro di ricerca e di cura che va ben oltre le semplici tecniche di restauro. È un restituire vita ai tessuti e, attraverso di loro, alle storie di cui sono custodi.

Questo Irene Tomedi lo ha imparato fin dal primo anno di studi, quando ha lavorato al restauro dei teli in mezza seta del 13mo secolo, con cui era stata avvolta la bara di san Francesco. Due anni più tardi, nel 1983, nel laboratorio della Fondazione Abegg Tomedi ha lavorato al restauro della casula di sant’Antonio da Padova. “Sant’Antonio – racconta – venne canonizzato trent’anni dopo la morte e in quell’occasione il suo corpo venne riesumato e riposto nella pianeta. Nel 1981, in occasione della ricognizione e dell’ostensione dei resti del corpo del santo, la casula, realizzata in sciamito (seta) rosso con galloni siciliani e fili d’oro, venne rinvenuta. Era stata tagliata in quattro parti, di cui una era scomparsa. I frammenti erano stati usati per avvolgere gli involucri della tonaca, delle ossa e dei resti del corpo del santo. Il nostro compito è stato quello di ricomporre la pianeta, integrando la porzione di tessuto mancante con una stoffa simile e dello stesso colore”.

Nel 2002 Tomedi viene chiamata da Flury Lemberg ad affiancarla nel restauro della Sindone. Un intervento conservativo, sulla base di quello che era stato operato dalle clarisse di Chambery nel 1534, in seguito all’incendio divampato la notte tra il 3 e il 4 dicembre 1532, quando la cappella in cui era custodita la Sindone andò a fuoco e il reliquiario che conteneva il Sacro lino venne avvolto dalle fiamme. Alcune gocce d’argento fuso caddero sul tessuto, bruciandolo in più punti.

Quello del 1532 non fu l’unico incendio che mise in pericolo la Sindone. Erano trascorsi una decina di giorni dalla Pasqua del 1997, quando nella notte tra venerdì 11 e sabato 12 aprile divampò un furioso incendio nel duomo di Torino, interessando un’ala del palazzo reale e distruggendo la cappella del Guarini, che ospitava la Sindone dal 1694. Hanno fatto il giro del mondo le immagini del vigile del fuoco Mario Trematore che frantuma a colpi di mazza la teca in vetro antiproiettile, estrae il reliquiario in legno e argento contenente la Sindone, se lo carica in spalla ed esce, insieme ai suoi colleghi, dal duomo in fiamme.

In quell’occasione la Sindone non subì alcun danno. L’incendio del 1997, però, fece accelerare la decisione di restaurare il Sacro lino, operazione attorno alla quale la Commissione della conservazione stava discutendo e ragionando da diversi anni.

Il compito, che venne affidato a Mechthild Flury Lemberg e a Irene Tomedi, era quello di rimuovere le toppe e la fodera in telo d’Olanda che erano stati applicati dalle clarisse nel 1534, per poi ancorare la Sindone su una nuova fodera, fermata da una cucitura invisibile con fili di seta.

“Il restauro era necessario perché, con il passare del tempo, il tessuto ha continuato a bruciare – spiega Tomedi –. Si tratta di un processo chimico. L’ossigeno presente nell’aria ha continuato ad alimentare la combustione del tessuto. In alcuni punti abbiamo trovato che la bruciatura aveva oltrepassato anche le toppe che le clarisse avevano applicato nel 1534”.

Il restauro della Sindone durò poco più di un mese, dalla sera di giovedì 20 giugno alla sera di martedì 23 luglio 2002.

“Sono stati giorni di intenso lavoro – ricorda Tomedi –. Tutto quello che è stato rimosso è stato catalogato e conservato in appositi vetrini. Il telo d’Olanda, ogni singola toppa, così come la fibra bruciata che è stata aspirata dal lino è stata riposta in contenitori sistematicamente etichettati”.

A documentare, ogni giorno, fin nei minimi particolari, il lavoro di Tomedi e Flury Lemberg era sr. M. Chiara Antonini, segretaria della Commissione per la conservazione della Sindone. “Non ci lasciava un attimo, era sempre lì, accanto a noi, con il suo quaderno, in cui appuntava ogni nostro singolo movimento”, rincorda Tomedi.

Una volta rimosse tutte le toppe e le parti bruciate, la Sindone venne fotografata ed esaminata grazie ad un videomicroscopio messo a disposizione da Tomedi. Nella terza fase del restauro la Sindone venne fissata su una nuova fodera. Il telo, un lino grezzo, venne donato da Flury Lemberg. L’aveva acquistato suo padre una cinquantina d’anni prima in Olanda (ancora una volta un ‘telo d’Olanda’, come quello usato dalle clarisse di Chambery). Lavato più volte per disapprettarlo e per restituirgli morbidezza, il telo è stato lasciato del suo colore naturale, un avorio intenso.

“Tutte le cuciture – spiega Tomedi – sono state fatte con filo di seta a due capi. Una fibra naturale la seta, resistente, che non va a lesionare la fibra del lino della Sindone. Un lino che ha una lavorazione particolare, a spina di pesce, che ho ritrovato, qualche anno più tardi, durante il restauro di alcuni gambali tipo ghette, risalenti al 700 a.C.”.

(Foto Irene Argentiero)

Mentre ci parla del filo di seta si avvicina a un mobiletto e, in un cassetto, ci mostra tante treccine colorate. Sembrano quasi capelli. “Il filo di seta – spiega – lo si acquista in matasse. Poi occorre districarlo e intrecciarlo, così da agevolare il lavoro della cucitura. È un’operazione che richiede tanta pazienza e tanta precisione”. Come tanta pazienza e precisione richiede la tintura del filo. “Il filo di seta viene poi tinto dello stesso colore del tessuto che andiamo a cucire – prosegue Tomedi –. Abbiamo fatto così anche per la Sindone. Abbiamo trovato la giusta tonalità di colore e abbiamo tinto il filo di seta”. Per ogni sfumatura di colore esiste la “ricetta” corrispondente. Lo si capisce guardando il grande raccoglitore in cui negli anni Tomedi ha raccolto le varie campionature con le rispettive grammature. Si ragiona in milligrammi e per questo occorre un bilancino di precisione. Una minima variazione rischia di rovinare la buona riuscita del lavoro.

“Le cuciture – aggiunge Tomedi – sono state realizzate tutte in piano. Le varie parti del Sacro lino sono state fermate con appositi piombi e le cuciture sono state realizzate con aghi ricurvi”. Mentre parla ci mostra uno dei piombi che usa nel suo laboratorio, che funge anche da puntaspilli ad una serie di aghi, fini come capelli, in cui è difficile scorgere ad occhio nudo la cruna. “Questo – dice, prendendone uno in mano – è ad esempio un ago chirurgico”.

Ad ascoltare Irene Tomedi parlare del restauro della Sindone si rimane affascinati. Sono trascorsi vent’anni, ma attraverso le sue parole è come ritornare nella “sagrestia nuova” del duomo di Torino, dove si sono svolti i lavori. Tra le tante, c’è una domanda che spicca sulle altre.

“La Sindone è vera? Personalmente sono dell’idea che sia vera.

Hanno provato in mille modi ad imitarla ma non ci sono mai riusciti. Ho analizzato al microscopio le singole fibre di tessuto e non c’è alcuna traccia di colore. Niente. È lino e basta. Sotto il microscopio non si vede nemmeno la differenza della bruciatura”.

Irene Tomedi è oggi la “dottoressa” della Sindone. Viene contattata ogni qualvolta viene registrato qualche minimo cambiamento (dovuto a impercettibili variazioni di umidità) o deve essere tirata fuori dalla sua teca – dove è attualmente conservata con gas argon – per una ostensione. “Per tutelare ancor più la Sindone, la soluzione ottimale – conclude Tomedi – sarebbe quella di mantenerla in posizione orizzontale, anche durante le ostensioni. Distesa su un supporto, senza fissaggi. Questo proteggerebbe il tessuto, che di per sé è molto delicato, da spostamenti di teche e variazioni di temperatura e umidità”.

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