Il mercato del lavoro riparte ma è tempo di parlare del salario minimo

La questione è quella di guardare ai problemi del mercato del lavoro nella complessità della sua concretezza, senza schematismi ideologici o, peggio ancora, propagandistici. Un rischio che si sta correndo, per esempio, a proposito del Reddito di cittadinanza. I dati ufficiali dell'Inps sull'incremento dei contratti stagionali hanno fortemente ridimensionato uno dei principali tormentoni estivi anti-Rdc. Ma il problema di quello che tecnicamente viene chiamato “salario di riserva” (al di sotto del quale non si ritiene utile lavorare) esiste davvero e si è manifestato con particolare evidenza in tutti i Paesi che hanno erogato sussidi per fronteggiare le conseguenze della pandemia

(Foto ANSA/SIR)

Il punto trimestrale dell’Istat sul mercato del lavoro, diffuso nei giorni scorsi e relativo al periodo marzo-maggio-giugno, registra segnali positivi coerenti con l’andamento generale dell’economia, che sta crescendo con ritmi che non si vedevano da decenni. Con 338 mila unità in più, nel secondo trimestre 2021 si rileva un significativo incremento di occupati e anche un’accelerazione nel ritmo di recupero rispetto al trimestre precedente. Il confronto con il corrispondente periodo del 2020, però, dà la misura di quanto sia stato profondo e devastante l’impatto della fase più dura della pandemia: sono stati persi circa 1 milione e 200 mila posti di lavoro e ne mancano ancora all’appello 678 mila. Non solo. I posti recuperati sono tutti “a termine”. Il totale di 523 mila, infatti, è il risultato di un +573 mila contratti a tempo determinato e di un -29 mila a tempo indeterminato e -21 mila indipendenti. Certo, se si restringe il campo al confronto tra primo e secondo trimestre dell’anno in corso, accanto a una quota largamente maggioritaria di rapporti a termine (+226 mila, +8,3%) compare un modesto aumento (+80 mila, +0,5%) di contratti a tempo indeterminato.

Il dato però non è interpretabile in modo univoco poiché potrebbe corrispondere almeno in parte a un rientro in attività di cassintegrati a zero ore (tanto più che da quest’anno dopo tre mesi non sono più considerati occupati, secondo le convenzioni statistiche europee) piuttosto che alla stipula di nuovi contratti.

Questo dubbio interpretativo intercetta una riflessione avviata da alcuni esperti del mercato del lavoro che si interrogano sul potenziale di “flessibilità” positiva che a certe condizioni può essere espresso dalla cassa integrazione e sul tasso di rigidità paradossalmente implicito nei contratti a tempo determinato, se adottati come modalità ordinaria o comunque massicciamente prevalente per regolare i rapporti di lavoro, come sta avvenendo in questa fase di tumultuosa ripresa post-pandemia (il “post” vuole essere benaugurante).

Detto in estrema sintesi e semplificando, mentre un azienda in fase di ripartenza può aumentare tempestivamente e senza soluzione di continuità le ore dei lavoratori in cig, per i contratti a termine cessati si pone il problema di reperire sul mercato i lavoratori mancanti e non è detto che ciò sia agevole e immediato, soprattutto con la cronica carenza che affligge il nostro Paese sul piano delle politiche attive (il cui rilancio, va ribadito ancora una volta, è un obiettivo prioritario del Sistema Italia).

Ovviamente non si sta indicando una ricetta grossolana, non è pensabile mettere tutti in cassa integrazione o rinunciare in toto ai contratti a tempo determinato. La questione è proprio quella di guardare ai problemi del mercato del lavoro nella complessità della sua concretezza, senza schematismi ideologici o, peggio ancora, propagandistici. Un rischio che si sta correndo, per esempio, a proposito del Reddito di cittadinanza. I dati ufficiali dell’Inps sull’incremento dei contratti stagionali hanno fortemente ridimensionato uno dei principali tormentoni estivi anti-Rdc. Ma il problema di quello che tecnicamente viene chiamato “salario di riserva” (al di sotto del quale non si ritiene utile lavorare) esiste davvero e si è manifestato con particolare evidenza in tutti i Paesi che hanno erogato sussidi per fronteggiare le conseguenze della pandemia. In Italia non riguarda soltanto il Rdc ma anche altri strumenti di sostegno come la Naspi per i disoccupati. Si tratta però di capire se si vuole affrontare il problema in modo unilaterale e semplicistico, tagliando gli importi dei sussidi, o se finalmente si vuole porre sul tavolo il tema del salario minimo, che ogni tanto si riaffaccia nel dibattito per poi inabissarsi rapidamente. Sono troppo alti i sussidi o non sono dignitose certe proposte di lavoro? È una domanda che meriterebbe una risposta appropriata.

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