Il volto dell’America lontana dagli “Happy Days”. Su Netflix “Elegia Americana” di Ron Howard con una Glenn Close in cerca di statuetta

Il regista Ron Howard, l’indimenticato Richie Cunningham di "Happy days", ha deciso di scommettere su un progetto dal respiro più sociale, ruvido, esplorando la periferia statunitense per dare voce ai tanti dimenticati, un po’ alla Clint Eastwood. “Elegia americana” attinge a piene mani alla storia vera di J.D. Vance, avvocato che ha raccontato la sua famiglia e gli affanni nella povertà nell’omonimo libro uscito nel 2016 e che il “New York Times” ha incoronato tra i best seller. Ora il film è uscito sulla piattaforma Netflix (dal 24 novembre) con protagoniste Glenn Close e Amy Adams, e già si parla di corsa all’Oscar. Ecco il punto della Commissione nazionale valutazione film e dell’Agenzia Sir.

Non è proprio l’America degli “Happy Days” quella che ci mostra questa volta Ron Howard in “Elegia americana” (“Hillbilly Elegy”), duro e disperante racconto di formazione in una terra a stelle e strisce che smarrisce il sogno nella crisi economica e nella disoccupazione. Lui, Howard, è l’indimenticato Richie Cunningham della citata serie tv anni ’70-’80, divenuto nel corso degli ultimi quattro decenni uno dei registi più influenti e interessanti di Hollywood, oltre che pluripremiato. Suoi sono i popolari “Splash” (1984), “Cuori ribelli” (1992), “Apollo 13” (1995), “A Beautiful Mind” (2001, Oscar miglior film e regia) e “Frost/Nixon” (2008). Questa volta Ron Howard ha deciso di scommettere su un progetto dal respiro più sociale, ruvido, esplorando la periferia statunitense per dare voce ai tanti dimenticati, un po’ alla Clint Eastwood. “Elegia americana” attinge a piene mani alla storia vera di J.D. Vance, avvocato che ha raccontato la sua famiglia e gli affanni nella povertà nell’omonimo libro uscito nel 2016 e che il “New York Times” ha incoronato tra i best seller. Ora il film è uscito sulla piattaforma Netflix (dal 24 novembre) con protagoniste Glenn Close e Amy Adams, e già si parla di corsa all’Oscar. Ecco il punto della Commissione nazionale valutazione film (Cnvf) e dell’Agenzia Sir.

Se il sogno americano si fa appannato

Lo scrittore statunitense J.D. Vance ha raccontato gli affanni della sua crescita nell’America impoverita e fragile dello Stato del Kentucky. Siamo nella “Rust Belt”, in quella zona degli Appalachi un tempo florida di attività e dove oggi le fabbriche e i negozi sono chiusi, ritratto di un miraggio decadente. Ron Howard e la sceneggiatrice Vanessa Taylor (che ha firmato il copione del film “La forma dell’acqua” con Guillermo del Toro) hanno ricostruito il contesto sociale in cui J.D. è cresciuto, accanto a una madre, Bev (Amy Adams), con stati d’animo a corrente alternata, in continua ricerca di una stabilità sentimentale e lavorativa. Perno educativo per il giovane è la nonna Mamaw (Glenn Close), che rimette costantemente sul binario la famiglia nei momenti di sbandamento. In particolare, J.D. arriva a non deragliare proprio grazie alla nonna; a lei il ragazzo deve quella resilienza e grinta che gli permettono di trasformarsi in un self-made man, accedendo alla Yale Law School e incarnando così il “sogno americano” dell’ascensore sociale.

Il punto critico Cnvf-Sir

Con “Elegia americana” Ron Howard decide di abbandonare il sentiero cinematografico che ha sempre percorso, per sposare uno sguardo sociale più graffiante e duro. Nella sua filmografia una scelta simile si ritrova forse in “Cinderella Man” (2005), racconto ambientato al tempo della Grande depressione in America, anche se i toni lì sono più da favola sociale tesa al riscatto. Qui in “Elegia americana” lo sguardo è ben diverso. C’è un tentativo di andare più in profondità nelle pieghe del reale, nelle periferie di un’umanità demotivata dal lavoro che non c’è e da una povertà che rende infelici e arrabbiati. I toni edulcorati sono ridotti all’osso, perché l’obiettivo è quello di un cinema di denuncia, anche se non si abbandona mai del tutto la parabola dell’American Dream.

Howard è un regista di talento, un grande narratore cresciuto nel cuore di Hollywood, capace di navigare agilmente tra le regole dei potenti Studios, osando anche nel dirigere progetti meno scontati come il citato “Frost/Nixon” oppure il duello Lauda-Hunt in “Rush” (2013) – sapendo che la Formula 1 non è tra gli sport più amati negli Stati Uniti –, come anche i documentari “The Beatles: Eight Days a Week” (2016) o “Pavarotti” (2019). Con “Elegia americana” l’autore prova a confrontarsi con una modalità di racconto non proprio sua, più asciutta, e non sempre sembra riuscire a mantenere bene il controllare della tensione del racconto. Gli manca quel graffio dolente e poetico alla Eastwood, per non parlare del registro duro, serrato, e per questo appassionante, tipico di Ken Loach. “Elegia americana” incede senza troppa compattezza e pathos, seppure sia non poco disperante; il film risulta freddo, con una tensione emotiva non ben gestita.

Sotto il profilo tematico-narrativo, accanto alla fotografia sociale, nel racconto troviamo anche uno sguardo sulla famiglia statunitense che ha perso fiducia nel domani. L’universo maschile è pressoché assente nell’orizzonte dell’adolescente J.D. Le donne della sua vita sono la nonna Mamaw, la madre Bev e la sorella Lindsay. L’instabilità è il ritmo dominante della crescita di questo ragazzo, con una madre imprevedibile, pressoché fuori controllo. Fortunatamente, ancoraggio nella tempesta rimane la nonna materna, che con modi asciutti e sbrigativi, ma densi d’amore, lo accompagna all’appuntamento con l’età adulta in maniera sana e solida. Da lei J.D. riceve quell’educazione che penetra nelle ossa, nelle fibre della mente e del cuore, quella che garantisce forza e resilienza nonostante tutto.

E se la linea del racconto appare non sempre ben calibrata, a salvare le sorti dell’opera sono senza dubbio le interpretazioni di Glenn Close e Amy Adams, così significative e potenti. Entrambe hanno sfiorato più volte l’Oscar nel corso della loro carriera (la prima è ben sette volte, la seconda sei). Che sia dunque questa la volta buona? Lo speriamo, soprattutto per la veterana Glenn Close, perché il ritratto che compie di Mamaw Vance è davvero sorprendente, tanto a livello fisico, tra postura e gesti, quanto a livello espressivo. E se il film “non balla” del tutto, possiamo dire che lei “balla da sola”.

Dal punto di vista pastorale “Elegia americana” è da valutare come complesso, problematico e adatto certamente per dibattiti nel racconto di un’America, di una società, che sembra aver perso la bussola, ma che comunque non si arrende alle intemperie.

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