“Volevo fare un’esperienza vera, per crescere e per aiutare gli altri”

Mi frulla nella testa da un po’ di tempo un’espressione originale: “barbaro verticale”. L’ha rilanciata (non è sua!) un giornalista italiano, Maurizio Blondet, di cui generalmente non condivido le tesi. Ebbene, il barbaro verticale – espressione che non vuole assolutamente essere un giudizio sulla persona – è uno che vive in un certo territorio, sin dalla nascita, ma non ne ha assunto la cultura, la tradizione, il pensiero, la storia. Semplicemente non la conosce.

Mi frulla nella testa da un po’ di tempo un’espressione originale: “barbaro verticale”. L’ha rilanciata (non è sua!) un giornalista italiano, Maurizio Blondet, di cui generalmente non condivido le tesi. Ebbene, il barbaro verticale – espressione che non vuole assolutamente essere un giudizio sulla persona – è uno che vive in un certo territorio, sin dalla nascita, ma non ne ha assunto la cultura, la tradizione, il pensiero, la storia. Semplicemente non la conosce. È uno straniero nel suo stesso suolo, un barbaro, cioè uno che “balbetta” la lingua – vale a dire i valori, le idee, i simboli – del luogo in cui vive. L’espressione era stata utilizzata dal citato giornalista per descrivere l’atteggiamento di un rappresentante delle forze dell’ordine che, a motivo delle restrizioni per l’emergenza del Covid, aveva interrotto bruscamente la messa che un anziano sacerdote stava celebrando insieme ad alcuni laici, il cui numero era appena superiore al limite consentito. Dal video, che aveva ripreso la scena e che aveva fatto il giro del web, si aveva l’impressione che l’agente interrompesse una qualsiasi manifestazione pubblica, senza avere la minima consapevolezza della particolarità (dire “mistero” sarebbe troppo) di quel “convenire”. Quasi si trattasse di sciogliere un qualsiasi assembramento non consentito in una piazza o lungo una strada…
Al di là della valutazione sull’opportunità o meno di interrompere quella messa (ormai è acqua passata!), l’episodio si presta ad una riflessione sul tempo che stiamo vivendo. Il mondo di oggi – il nostro mondo – in un certo modo è abitato da non pochi “barbari verticali” che hanno perso, senza quasi accorgersene e senza quasi responsabilità personale, l’abc del mondo in cui sono cresciuti. Sono giovani e adulti che hanno una comprensione molto parziale di quella che è la storia e la cultura del proprio Paese. Ripeto. Non vengono da fuori ma sono nostri, cresciuti in mezzo a noi, dentro alle nostre scuole, alle nostre famiglie, ai nostri percorsi di formazione cristiana…
Mi conduce a considerazioni simili anche la vicenda di Silvia Romano, che ha rilasciato un’intervista, nei giorni scorsi, in cui ha spiegato le ragioni e le fasi della sua conversione all’Islam avvenuta durante la sua prigionia tra i terroristi di Boko Haram. Si tratta della conversione di una giovane donna istruita, del Nord Italia, che – come lei stessa racconta – prima era lontana da Dio: non atea per scelta, ma “completamente indifferente”, come tanti altri giovani di oggi che dai nostri percorsi di formazione escono apparentemente impermeabili a qualsiasi esperienza spirituale. Per risvegliare in Silvia la percezione del sacro e la domanda sull’esistenza di Dio è stato “necessario” un anno di prigionia in condizione drammatiche.
Sebbene cultura occidentale e fede cristiana non siano perfettamente sovrapponibili, il mondo simbolico delle nostre terre rinvia con insistenza a Dio e precisamente al Dio di Gesù Cristo. Penso a quante messe questi giovani avranno assistito o a quante ore di catechismo e di religione cattolica avranno partecipato; penso a tutti i simboli cristiani disseminati nelle nostre città, alle opere d’arte ispirate ai racconti biblici, a Manzoni e Dante insegnati a scuola, ai preti e alle suore incontrati durante la loro vita… Eppure, molti dei nostri ragazzi crescono come se tutto questo non appartenesse e non comunicasse loro nulla: figuriamoci generare in loro la fede (cristiana). Tutto questo patrimonio per loro è muto e non ha alcuna capacità di interpellarli. Hanno altri codici valoriali e un’altra cultura che si differenzia dalla precedente, dalla quale sembrano anzi voler prendere le distanze.
C’è un punto, forse, in cui ci si può intendere con i “barbari verticali”. C’è un punto di contatto. Nel suo racconto, Silvia dice che era partita per l’Africa perché dopo la laurea “voleva fare un’esperienza vera, per crescere e per aiutare gli altri”. Questo è un desiderio squisitamente evangelico o comunque in sintonia con il messaggio di Gesù. È anche un’esperienza, cioè qualcosa di concreto, non semplicemente un’idea. Forse la via per tentare un contatto o un dialogo passa proprio per di qua: andare oltre alle tante parole e incontri e riflessioni, per fare qualcosa, per vivere insieme, per dedicarsi agli altri. Nel medioevo, il monachesimo affascinò i barbari perché seppe proporre loro, insieme ai contenuti del Vangelo, un concreto stile di vita. Possiamo sperare che funzioni anche oggi.
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