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Dpcm e coinvolgimento delle Camere: l’emendamento che introduce una nuova modalità di rapporto tra Governo e Parlamento

Per capire la rilevanza di questa innovazione, bisogna richiamare il dibattito molto serrato –  e spesso polemico – che si è svolto in questi mesi sui dpcm e sul mancato coinvolgimento del Parlamento nelle misure anti-contagio. La nuova norma, frutto di un accordo tra le forze di maggioranza e con il via libera dello stesso Governo, è costruita sul modello della procedura prevista per coinvolgere il Parlamento in occasione delle riunioni del Consiglio europeo: il premier riferisce alle Camere circa la posizione che andrà a sostenere in quella sede e le Camere, dopo un dibattito, esprimono degli indirizzi non vincolanti ma di cui il Governo evidentemente non potrà non tener conto. Un passaggio analogo, quindi, sarà previsto anche per i dpcm, tranne che nei casi di estrema urgenza in cui la verifica parlamentare sarà successiva.

Mentre la situazione sanitaria viene monitorata costantemente per modulare le nuove riaperture dopo quelle già effettive, ora la sfida più impegnativa per il governo appare quella sul piano economico. C’è il problema di condurre a piena operatività le misure adottate e c’è l’impegno a varare quanto prima il decreto-legge con gli interventi di maggiore portata, da accompagnare con azioni di sblocco dei nodi burocratici che altrimenti rischiano di vanificare gli sforzi compiuti a livello finanziario con una mobilitazione di risorse senza precedenti. Purtroppo, quello che doveva essere il “decreto aprile” è diventato il “decreto maggio” a causa di una gestazione estremamente faticosa e una conseguente serie di rinvii. Dopo la strettoia inevitabile della Fase 1, nella Fase 2 è riesplosa la pressione degli interessi settoriali dei partiti e dei soggetti economici. Un intreccio in cui rischia di essere marginalizzata ancora una volta l’attenzione per le famiglie. Il rialzo della temperatura ideologica dello scontro lo si misura, tanto per cambiare, sui temi della giustizia e dell’immigrazione, tornata motivo di scontro dentro e fuori la maggioranza anche se tutte le evidenze, comprese quelle di natura economica, spingono in favore di una ben fatta regolarizzazione.

Trovare una sintesi adeguata è un’impresa obiettivamente difficilissima, tanto più che ci si deve confrontare anche con un contesto europeo la cui importanza decisiva per l’Italia è sempre più evidente e che tuttavia è continuamente attraversato da tensioni irrisolte e insidiose controspinte.

In questa situazione così delicata, l’attenzione per gli equilibri istituzionali non è una questione per addetti ai lavori. Nel momento in cui Governo e Parlamento sono chiamati ad assumere decisioni che incidono in modo diretto e sistematico nella vita dei cittadini, bisogna rendere sempre più trasparenti le procedure attraverso cui tali decisioni vengono assunte.

In questo senso è significativa l’innovazione proposta con un emendamento al decreto-legge n.19 (il “decreto Covid”), che in questi giorni è in discussione alla Camera per la definitiva conversione in legge. L’emendamento prevede una nuova modalità di rapporto tra Governo e Parlamento in ordine dell’emanazione dei dpcm, i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri che ormai praticamente tutti gli italiani ben conoscono. La nuova norma, frutto di un accordo tra le forze di maggioranza e con il via libera dello stesso Governo, è costruita sul modello della procedura prevista per coinvolgere il Parlamento in occasione delle riunioni del Consiglio europeo: il premier riferisce alle Camere circa la posizione che andrà a sostenere in quella sede e le Camere, dopo un dibattito, esprimono degli indirizzi non vincolanti ma di cui il Governo evidentemente non potrà non tener conto. Un passaggio analogo, quindi, viene previsto anche per i dpcm, tranne per i casi di estrema urgenza in cui la verifica parlamentare sarà successiva. L’emendamento doveva essere votato questa settimana ma il contrasto con l’opposizione, che contesta in radice l’uso che il Governo ha fatto dei dpcm, ha portato a un rinvio. Appare a questo punto improbabile che il decreto contenente la nuova norma possa essere convertito in legge prima del prossimo dpcm, atteso in vista della scadenza del 17 maggio, ma il Presidente del Consiglio potrebbe anticipare di sua iniziativa lo spirito della nuova procedura presentando preventivamente le nuove misure alle Camere. Sarebbe anche questo un segnale della fase nuova che si è aperta dopo i momenti più terribili dell’emergenza sanitaria.

Per capire la rilevanza di questa innovazione, bisogna richiamare il dibattito molto serrato –  e spesso polemico – che si è svolto in questi mesi sui dpcm e sul mancato coinvolgimento del Parlamento nelle misure anti-contagio. I dpcm sono degli atti amministrativi solitamente utilizzati per dare attuazione alle disposizioni di una legge. Sin dall’inizio della pandemia si è fatto ricorso a questo strumento (che fa capo al solo Presidente del Consiglio senza il coinvolgimento di altri soggetti istituzionali) per poter intervenire in modo immediato e agile nella gestione dell’emergenza. Il problema si è posto nel momento in cui con i dpcm si è andati a limitare l’esercizio di alcuni diritti costituzionali: possibilità che la stessa Costituzione consente in circostanze eccezionali purché ciò avvenga con norme a livello di legge. Ecco perché (anche in seguito all’azione discreta e informale del Quirinale, la cosiddetta moral suasion) si è provveduto a “sanare” il meccanismo attraverso due decreti-legge, quindi norme di rango primario, che hanno assorbito le prime misure adottate e hanno fornito la base di successive “disposizioni attuative” (così, infatti, sono stati intitolati i dpcm). Il tutto indicando precisi limiti di contenuto e di tempo così come richiesto dall’ordinamento in relazione ai provvedimenti eccezionali. Tali decreti-legge, come di regola, sono stati poi sottoposti all’esame del Parlamento per la definitiva conversione. Così che le Camere sono state comunque coinvolte nel procedimento normativo.

Ma perché non si è fatto ricorso direttamente ed esclusivamente ai decreti-legge, cioè agli strumenti espressamente previsti dalla Costituzione “in casi straordinari di necessità e urgenza”? L’obiezione è molto seria, anche se dovrebbe essere sollevata – in senso contrario – tutte le volte che i governi emanano decreti-legge in casi che di necessità e urgenza non hanno proprio niente. E sono anni che ciò avviene con esecutivi di ogni colore. La risposta all’obiezione, comunque, va cercata nella concretezza della situazione in cui ci si è trovati a operare. Dovendo intervenire ripetutamente e con continui aggiornamenti o correzioni di rotta, ci si sarebbe trovati con una serie di decreti-legge presentati in Parlamento ma senza la possibilità di essere convertiti in legge perché destinati a essere rapidamente superati da altri in corso d’opera, con un groviglio di norme sovrapposte ben più grave di quello che pure si è in parte verificato con i dpcm. Un procedimento all’apparenza formalmente corretto, ma di fatto irrispettoso per tutte le istituzioni coinvolte, in primis lo stesso Parlamento. Sembrano soltanto questioni tecniche su cui è ovviamente lecito avere diverse opinioni. Ma poiché si è arrivati a parlare di un Governo con intenti liberticidi e di un premier alla ricerca dei “pieni poteri”, è bene riportare il discorso sul terreno della ragionevolezza, soprattutto in una fase in cui ai cittadini viene chiesto un supplemento di responsabilità. Forse l’ipotesi di introdurre nella Costituzione una specifica procedura per lo “stato d’eccezione”, come previsto in altri Paesi europei, andrebbe ripresa a mente fredda e con la necessaria ponderazione, facendo tesoro anche dell’esperienza di questi mesi. Per intanto teniamoci stretta la nostra democrazia che sta reggendo anche a questa prova epocale.

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