20 anni insieme: Ue celebra l’allargamento a est. E guarda a Balcani e Ucraina

Il 1° maggio 2004 dieci Stati entrarono a far parte della "casa comune", quasi tutti reduci del blocco comunista dissoltosi con il crollo del Muro di Berlino. Nel ventesimo anniversario si tracciano bilanci, riconoscendo passi avanti ai Paesi dell'est e vantaggi anche per quelli che erano già nell'Unione. Ma non furono, e non sono, tutte rose e fiori. Mentre si guarda già al futuribile nuovo ampliamento a Balcani, Ucraina, Moldova e Georgia

Strasburgo, 2004: cerimonia di accesso di 10 nuovi Paesi membri all'Ue (Foto Parlamento europeo)

Per Charles Michel (Consiglio europeo) è stato “un investimento geopolitico nella pace e nella sicurezza”; secondo Ursula von der Leyen (Commissione) addirittura l’avvio “di una nuova era”; Roberta Metsola (Europarlamento) ha parlato di “effetto trasformativo” per la vita di tutti gli europei. Celebrando i 20 anni dell’allargamento a est, l’enfasi non si è fatta attendere nelle sedi istituzionali di Strasburgo e Bruxelles.
Il 1° maggio 2004, un quindicennio dopo la caduta del Muro di Berlino e il successivo dissolversi del blocco comunista guidato dall’Urss, aderivano all’Ue Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia e Slovenia. Nel 2007 si aggiungevano Romania e Bulgaria; nel 2013, infine, la Croazia.
Una decisione – quella di accogliere nella “casa comune” Paesi che per troppo tempo erano stati oltre la Cortina di ferro, così diversi per regimi politici, economici e sociali – a suo tempo complessa, a tratti sofferta, da alcuni non condivisa. Eppure occorre riconoscere, come ha fatto Ursula von der Leyen, che nei venti anni trascorsi “quasi 450 milioni di europei hanno goduto della libertà di movimento all’interno di un’Unione più ampia. I cittadini hanno diritti e libertà più forti. Le economie degli allora nuovi Stati membri hanno registrato un boom, la loro produzione agricola è triplicata e il loro tasso di disoccupazione è stato dimezzato”. E anche i Paesi che erano già membri al momento dell’allargamento del 2004 “hanno sperimentato crescita e prosperità”. L’allargamento “ha offerto a un numero maggiore di cittadini e imprese dell’Ue l’opportunità di studiare e lavorare all’estero, investire ed esportare in un’Unione più ampia”. Infine, sempre secondo Von der Leyen, “l’allargamento del 2004 ha rafforzato la voce dell’Europa sulla scena mondiale” (una opinione tutta da verificare!).
Peraltro è lecito domandarsi cosa ne sarebbe stato di quei Paesi se fossero rimasti fuori dall’uscio dell’Unione, forse in balìa di un ritorno sotto l’influenza russa: ipotesi che oggi, alla luce della guerra di Putin contro l’Ucraina, fa venire i brividi alla schiena.
Certamente gli Stati dell’ex Patto di Varsavia hanno goduto di sostegno politico e di ingenti aiuti dall’Ue per rimettersi in piedi: dapprima per il ritorno alla libertà (spesso conquistata a caro prezzo), alla democrazia e ai diritti, poi sul piano della crescita economica che sta portando – lentamente ma progressivamente – anche miglioramenti sociali. Semmai il problema oggi più evidente è l’involuzione di alcuni di questi Paesi a governanti e a forme di governo che rischiano di smarrire i fondamenti dello stato di diritto (non è solo il caso dell’Ungheria).Alla vigilia dell’anniversario di quel 1° maggio 2004, Charles Michel ha svolto un’ampia riflessione sul senso storico e attuale dell’allargamento, rivolgendo ovviamente lo sguardo anche al futuribile, da qualcuno auspicato, nuovo allargamento a Balcani, Ucraina, Moldova, Georgia.
“Nel 2004, i nostri predecessori – ha sottolineato il presidente del Consiglio europeo – hanno capito la portata della sfida: il loro obiettivo era riunire un continente segnato da secoli di guerre e divisioni. Oggi, la prova della nostra generazione è rendere questa Europa più forte, più sovrana, più influente, più integrata e ancora più unita”. Eppure, ha riconosciuto, l’ottimismo di allora “sembra lontano. Oggi ci troviamo di fronte a tre grandi shock”: il cambiamento climatico, lo shock tecnologico (rivoluzione digitale, intelligenza artificiale e impatto sulle nostre società) e una transizione geopolitica segnata da caos e instabilità. Tutto ciò in un clima di pesante ritorno di nazionalismi e protezionismo. Ovvero il contrario di quanto si percepiva o immaginava ai tempi della “globalizzazione”.
Le guerre in corso in ogni continente, le povertà latenti, le pressioni migratorie, il neocolonialismo… sono solo alcuni dei volti di questa nuova era. Eppure, sostiene sempre Michel, “l’Unione europea ha molto da offrire. Quasi mezzo miliardo di persone vivono in società avanzate. La nostra Unione è un gigante economico, scientifico, innovativo e culturale e, con i futuri allargamenti e una maggiore sovranità, lo diventerà ancora di più. L’Ue è anche il più grande spazio di libertà e opportunità su questo pianeta”.
La “sovranità europea” si fonda, a suo dire, su tre pilastri: innanzitutto, i valori e i principi democratici; in secondo luogo, l’impegno a costruire insieme un’economia forte e più competitiva; in terzo luogo, la necessità di “rafforzare la nostra capacità di difesa”. Altri temi, come quelli sociali e ambientali restano putroppo sullo sfondo.Interessante infine il riferimento al nuovo allargamento, che potrebbe riguardare nei prossimi anni una decina di Paesi. Per Charles Michel “dobbiamo essere pronti, da entrambe le parti, ad allargarci entro il 2030. Per i Paesi candidati ciò significa apportare le riforme necessarie e risolvere tutte le controversie bilaterali. Da parte dell’Ue, ciò significa riformare i nostri programmi, i nostri bilanci e il nostro processo decisionale”. Ciò a dire: l’allargamento farà bene anche alla stessa Unione europea.
Il cammino sarà lungo, forse non indolore, apparentemente necessario. Potrebbe persino “funzionare”, a condizione che in questo processo eminentemente politico ed economico non si trascuri di coinvolgere i popoli, le nuove generazioni, la società civile dei rispettivi Paesi, le Chiese e le comunità religiose: perché l’Ue sia davvero, anche per i “nuovi arrivati”, la casa comune dei cittadini europei.

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