Lidia che sopravvisse a Mengele. Il dovere di ricordare l’orrore di Auschwitz

Nel libro “La bambina che non sapeva odiare” Lidia Maksymowicz, sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, racconta la violenza, le paure, la tragedia della famiglia e di chi fu vittima dell'odio nazista. Gli esperimenti sui bambini, i forni crematori, il distacco dalla madre (ritrovata solo nel 1962), la fine dell'incubo e una nuova famiglia... Il Papa le ha baciato il braccio con tatuato il numero 70072. Oggi, nella Giornata della memoria, promette che continuerà a raccontare l'Olocausto perché non se ne dimentichi il monito

(Foto ANSA/SIR)

“A voi giovani spetta di far sì che l’orrore dei lager nazisti non si ripeta mai più”, continua ad ammonire l’82enne Lidia Maksymowicz, sopravvissuta al campo di concentramento nazista di Auschwitz-Birkenau. Ieri, dopo aver partecipato all’udienza generale di Papa Francesco, nella sala dedicata ai Caduti di Nassiria a Palazzo Madama ha presentato il libro “La bambina che non sapeva odiare” (ed. Solferino) scritto a quattro mani con Paolo Rodari (vaticanista de La Repubblica). Con grande commozione Lidia ricorda le lacrime agli occhi di Papa Francesco che, a maggio dell’anno scorso, vide il numero di Auschwitz tatuato sul suo braccio e si chinò per baciarlo. Ieri ha regalato al Pontefice il suo libro che “tutti dovrebbero leggere per non dimenticare mai l’orrore del quale è stato capace l’uomo 77 anni fa”.

(Foto ANSA-SIR)

Orrore indicibile. Lidia non prova odio verso i suoi torturatori che ad Auschwitz hanno trasformato la sua infanzia in un orrore indicibile. “Chi prova odio soffre di più di quello che è odiato” dice al Sir con voce ferma, consapevole che “l’odio mi avrebbe distrutta mentre non ci sono riusciti nemmeno i miei carnefici”. Nel freddo dicembre del 1943 al Dottor Morte (il capitano delle Ss Josef Mengele) quella bambina paffutella con gli occhi azzurri piacque subito. Lidia, che allora si chiamava ancora Luda, fu portata ad Auschwitz dalla Bielorussia, dove durante un rastrellamento dei nazisti venne arrestata insieme al fratello, ai genitori e ai nonni perché la mamma era una partigiana e membro di un gruppo di oppositori di Hitler. All’epoca, anche se poteva apparire un poco più grande, aveva solo tre anni.

Gli stivali di Mengele. Ad Auschwitz, Mengele la scelse personalmente come una delle sue cavie, la sistemò insieme ad altri bambini nella baracca attigua al suo “laboratorio”, e ogni tanto la faceva prelevare per sottoporla ad esperimenti che avevano come scopo iniettare dei veleni nel suo corpo o testare i suoi occhi azzurri per trovare il modo di replicare i tratti somatici caratteristici perla “razza ariana”. Oggi, dei tredici mesi vissuti nel campo, liberato il 27 gennaio del 1945, Lidia si ricorda solo alcuni flash. Il suo racconto – che va dall’abbaiare dei cani tenuti dalle Ss all’arrivo al campo fino al giorno in cui, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, venne adottata da una donna polacca e cattolica di nome Bronisława – non è lineare, come lei stessa ammette. “Una bambina di tre anni non era in grado di capire tutto l’orrore del campo di sterminio nel quale si era trovata”, spiega, ricordandosi però benissimo l’agghiacciante paura che le incutevano gli stivali del dottor Mengele tirati a lucido. Si ricorda i cadaveri degli adulti e di altri bambini ammazzati o morti di stenti nel campo. Si ricorda l’odore del fumo che usciva dai forni crematori, la fame e il freddo.

Lei e la mamma. Racconta che all’arrivo di Mengele cercava “di nascondersi più possibile in fondo, sotto i giacigli a più piani che erano nella baracca, per non essere vista” e chiudeva gli occhi nella speranza che non potendo lei vedere nulla, nessuno riuscisse a trovarla. La mamma di Luba, strisciando nella notte dalla baracca alla quale era stata destinata come “forza lavoro” qualche volta riusciva a portare alla figlia una cipolla, ad accarezzarla e a ricordarle chi fosse. La bambina, infatti, non era solo il numero 70072 che portava tatuato sul braccio. Si chiamava Ludmila Boczarowa ed era nata in Bielorussia non lontano da Vitebsk. La mamma, però, un giorno andò via con una delle “Marce della morte” organizzate dai nazisti per annientare gli ultimi superstiti dei campi di concentramento. La bambina rimase sola, senza capire perché la madre l’avesse lasciata. La ritrovò, grazie alla Croce Rossa, solo nel 1962. S’incontrarono a Mosca, insieme alla famiglia adottiva di Luda che allora si chiamava già Lidia, era diventata cattolica, e sposata con Artur Maksymowicz di cui prese il cognome.

Dedica ai bambini. “Solo nel campo di Auschwitz-Birkenau sono stati trucidati oltre 200mila bambini. Ma i campi di concentramento sono stati tanti, tantissimi, e allora vorrei dedicare questo libro a tutti i bambini che non ce l’hanno fatta ma anche a quelli sopravvissuti”, ci dice, promettendo di continuare la sua missione finché potrà.

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