
Il Giubileo dello sport, in programma il 14 e il 15 giugno 2025, si inserisce nel calendario degli eventi giubilari come un’occasione per riscoprire la bellezza dello sport come luogo di incontro, fraternità e crescita umana. L’evento si rivolge non solo agli atleti, ma a tutti coloro che, attraverso l’attività sportiva, promuovono i valori della lealtà, dell’inclusione e del rispetto reciproco. In preparazione a questo appuntamento, il Sir ha intervistato Mara Santangelo. Ex tennista professionista, vincitrice del Roland Garros in doppio nel 2007, oggi è impegnata in attività di carattere sociale e testimonianza cristiana. In questo dialogo, ripercorre il proprio cammino personale e sportivo, offrendo una riflessione sul significato autentico della vittoria, sull’importanza della fede e sullo sport come via privilegiata di formazione integrale della persona.
Lo sport, oggi più che mai, è occasione di educazione, incontro, testimonianza. Nella sua esperienza personale e sportiva, quale ruolo ha avuto la fede?
Quando ero in attività, non avevo un rapporto semplice con Dio. Ero arrabbiata con Lui. Avevo vissuto grandi sofferenze: la separazione dei miei genitori durante l’adolescenza e poi, a 16 anni, la perdita improvvisa di mia madre in un incidente stradale. Era una donna alla quale avevo promesso che sarei diventata una tennista professionista. Quella sera sarei dovuta essere in auto con lei, ma all’ultimo minuto salii su un’altra macchina. Lei morì precipitando in un burrone in montagna, dove siamo originari. Da quel giorno, quella promessa è diventata la mia ragione di vita. Ho avuto anche ostacoli fisici importanti: una malformazione ai piedi, un osso in più sotto l’alluce – il sesamoide – che si è fratturato. I medici dicevano che non sarei mai riuscita a giocare a livello professionistico. Ma ho lottato. Anche quando il dolore era forte, anche quando il mio corpo sembrava tradirmi. Nel 2005 giocai per la prima volta sul campo centrale di Wimbledon contro Serena Williams. Durante la partita, un dolore lancinante al piede mi costrinse a rifugiarmi negli spogliatoi. Lì ebbi un momento di rottura con Dio. Perché tutto quel dolore? Perché a me? Avevo talento, ma non riuscivo a esprimermi come avrei voluto. Solo dopo la fine della carriera sportiva, durante un pellegrinaggio, ho sperimentato davvero la presenza viva dello Spirito Santo. Ho visto negli occhi di chi era con me una gioia profonda, quella che cercavo da una vita. Da allora ho sentito il desiderio di conoscere Gesù, di affidarmi a Lui, di vivere i sacramenti.
Cosa le ha insegnato la sconfitta? E quanto è importante educare anche alla sconfitta, non solo al successo?
Fondamentale. Spesso si vede solo la vittoria, la punta dell’iceberg. Ma per arrivare lì servono sacrifici, rinunce, duro lavoro. E tante sconfitte. Non conosco nessuna persona di successo – nello sport, nel lavoro, nella vita – che non abbia conosciuto il fallimento. Ne parlo spesso ai giovani, nei progetti sociali che seguo: la sconfitta costruisce il carattere. Ti insegna a crescere, a migliorare, a capire i tuoi limiti e lavorare su di essi. Lo sport è una grande palestra di vita.
Qual è secondo lei il valore educativo dello sport per i giovani?
Lo sport è una scuola di vita. Ti insegna la disciplina, il rispetto per le regole, il lavoro di squadra, la gestione delle emozioni.
I giovani che praticano sport imparano a conoscersi, a confrontarsi con gli altri, ad affrontare le difficoltà e a rialzarsi dopo una caduta. È un allenamento alla vita, in ogni senso.
Pensa che lo sport possa essere un antidoto alla solitudine e allo smarrimento che tanti ragazzi vivono oggi?
Sì, credo fortemente che lo sport possa offrire un senso di appartenenza, una comunità, un luogo dove sentirsi accolti. Oggi tanti giovani si sentono soli, disorientati, sotto pressione. Lo sport può essere un’ancora, un punto di riferimento, un ambito dove costruire relazioni sane e durature, dove sentirsi valorizzati per quello che si è, non solo per quello che si fa.
Lo sport è anche incontro tra culture e linguaggi diversi. Può essere davvero un ponte di fraternità?
Assolutamente. In campo siamo tutti uguali. Ho visto abbracci tra persone di culture diversissime, dopo match durissimi. Le barriere cadono con un sorriso, con il rispetto reciproco.
Lo sport può e deve essere uno strumento di fraternità, inclusione e pace. Oggi più che mai abbiamo bisogno di ponti, non di muri, come ha detto anche il Papa. E lo sport può costruire questi ponti.
Nei suoi libri unisce racconto sportivo e testimonianza di fede. È una missione?
Sì. Ho scritto due libri: “Te lo prometto” e “Match Point”. Il primo nasce dalla promessa a mia madre e si chiude con una promessa a Dio. Il secondo racconta il mio vero match point, quello con la fede. Perché sì, ho vinto molti titoli, ma
il punto più importante della mia vita è stato l’incontro con il Signore.
Oggi metto Dio al centro di ogni cosa. Organizzo eventi sportivi e raccolte benefiche per diverse missioni. Credo che ognuno debba mettere a frutto i propri talenti per dare agli altri: c’è più gioia nel dare che nel ricevere.
Un augurio per il mondo dello sport in questo Giubileo?
Che torni a mettere al centro la persona, non la sola prestazione. Dalla base all’alto livello, si deve tornare a educare prima ancora che a vincere. Servono ambienti sportivi sani, allenatori che siano guide. Lo sport deve essere prima di tutto formazione umana, poi tecnica. Solo così si cresce davvero.
Vuole aggiungere qualcosa?
Sì. Mi offro per giocare una partita col Santo Padre. So che è un appassionato di tennis… Mi metto a disposizione!