Apostolato del mare: la fraternità per sovvertire una cultura che condanna alla solitudine

La fatica e la solitudine dei marittimi, le migrazioni e l’incontro tra culture, la cura del creato e la biodiversità, il primato dell’economia a scapito della dignità delle persone: sono "le sfide" a cui la Chiesa è chiamata a dare una risposta. Se ne è parlato durante il secondo convegno dell’Apostolato del mare in Italia a Civitavecchia

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

“Una terapia di fraternità per sovvertire una cultura che condanna i marittimi alla solitudine e isola; genera freddezza ed esaurisce; conduce a stanchezza e depressione”. È la strada che don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per l’Apostolato del mare, indica ai referenti diocesani, ai cappellani e ai volontari delle associazioni Stella Maris riuniti a Civitavecchia per il secondo convegno dell’Apostolato del mare in Italia. L’incontro, dal titolo “I marittimi: dalla solitudine alla fraternità”, ha visto la partecipazione di oltre sessanta delegati.

La fatica e la solitudine dei marittimi, le migrazioni e l’incontro tra culture, la cura del creato e la biodiversità, il primato dell’economia a scapito della dignità delle persone: sono “le sfide” a cui la Chiesa è chiamata a dare una risposta.

Ad indicarle è stato mons. Gianrico Ruzza, vescovo delle diocesi di Civitavecchia-Tarquinia e Porto-Santa Rufina ed anche promotore dell’Apostolato del mare in Italia, che ha aperto il convegno insieme al sindaco della città, Ernesto Tedesco, presso la sala conferenze del Forte Michelangelo. La rassegna si è svolta in tre sessioni che hanno messo al centro i temi che interpellano la “gente di mare”. Filo conduttore è stata l’enciclica Fratelli Tutti con la frase “Rimane sempre uno spazio per il dialogo”. Il sabato mattina è stato invece dedicato all’apporto dei marittimi al cammino sinodale della Chiesa italiana. “Abbiamo scelto il tema della solitudine – ha detto il presule – perché come Chiesa abbiamo imparato molto dal cammino sinodale”. “In questi due anni – ha aggiunto – ho ascoltato il grido di dolore di coloro che sono rimasti imbarcati lunghi mesi a causa del Covid, dei pescatori vittime delle eccessive restrizioni, dei lavoratori sfruttati. Siamo qui – ha aggiunto mons. Ruzza – con la voglia di una ricerca autentica della verità, alla luce della tradizione del mare, della vita di chi lo ama e della Dottrina sociale della Chiesa”.
Don Bignami ha tracciato alcune “attenzioni” che cappellani e volontari sono chiamati a coltivare: “Occorre aiutare la comunità cristiana ad aprire gli occhi sulle persone invisibili e che, invece, sono una colonna del mondo economico odierno. Senza marittimi non ci sarebbe commercio. Tuttavia, non possiamo accettare che tale economia sia sostenuta sistematicamente sullo sfruttamento dei lavoratori”.
Il sacerdote suggerisce di allargare lo sguardo sui problemi umani e psichici, ma anche di non lasciarsi intrappolare dalla tentazione di “essere dei superman che risolvono tutto”: l’invito a seguire l’esempio del Samaritano “imparare a fare la propria parte, senza dimenticare di far affidamento su chi ha maggiori competenze”.
Don Bignami ha poi sottolineato l’importanza del dialogo:

“L’ambiente marittimo si caratterizza per la presenza di persone provenienti da mondi culturali, religiosi, sociali molto differenti tra loro. La cassetta degli attrezzi di una pastorale d’ambiente non deve mancare della capacità di dialogo”. Si tratta di un dialogo paziente che si alimenta con la ricerca di punti di contatto e l’ascolto umile.

Su questi temi si è svolta la tavola rotonda coordinata da don Gabriele Quinzi, sacerdote salesiano e figlio di un marittimo. A mettere l’accento sulla formazione per i lavoratori del mare è stata Paola Vidotto, direttrice dell’Accademia della Marina Mercantile di Genova, parlando dell’impegno ad educare i giovani marinai per “reagire alle avversità imparando ad attivare le proprie risorse”; “superare l’analfabetismo emotivo abituandosi a socializzare”; “saper leggere e interpretare i diversi contesti di vita”. Francesco Buscema, psicologo dell’Università di Torino, ha illustrato i risultati della ricerca “Ma come fanno i marittimi?” realizzata nell’ambito del progetto “Psicologia del mare”. Da 880 interviste a lavoratori imbarcati è emersa “la richiesta costante di tempo da dedicare al riposo” e di “ambienti di qualità dove si faccia fraternità”. “Non basta fornire ai lavoratori una postazione internet – ha detto – ma anche spazi e tempi di socialità, di riposo e di momenti di confronto con chi comanda l’equipaggio”. Enrica Mammuccari, segretaria generale della Uila Pesca, si è soffermata sulla grave crisi del comparto e sulle difficoltà del ricambio generazionale in un settore che ha perso 35mila addetti dal 2005. Oltre a un essere “difficile, rischioso e pagato male”, quello del pescatore è anche un lavoro che “ha una cattiva narrazione”. “È passata l’idea, non solo per la pesca, che tutti i lavori faticosi siano poveri e vengano disconosciuti socialmente. I giovani hanno paura di sentirsi umilianti e marginalizzati. Spesso – ha aggiunto la sindacalista – si imputa ai pescatori anche la responsabilità della distruzione delle risorse marine. È innegabile che la pesca abbia un impatto sull’ambiente, ma ritengo che sia come tutte le attività antropiche”.

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