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Da dove entra la tentazione?

La tentazione è anzitutto un suggerimento interpretativo che parte da un dettaglio negativo e lo amplifica perché si perda di vista l’insieme; sussurra una mancanza, vera o presunta, e induce a leggere le situazioni ambivalenti in modo unilateralmente negativo. Questa è la vera opera del Nemico contro di noi: il resto è corollario e conseguenza. Il diavolo ci offre il suo punto di vista sul reale, uno sguardo tutto in nero, senza sfumature o spiragli

Monastero greco-ortodosso delle Tentazioni a Gerico (Foto Siciliani - Gennari/SIR)

Anche quest’anno, con l’inizio della Quaresima, noi cristiani siamo messi davanti alla possibilità, davvero inusuale per la maggior parte delle comuni situazioni della vita, di contestare noi stessi, ravvivando la speranza che, da qualche parte dentro di noi, sia celata una bellezza che si tratta solo di riscoprire, e non di inventarsi o rubare o contraffare o catturare o simulare – perché questa è la vera piaga: la nostra istintiva persuasione che in noi il bene non alberghi, ma che con affanno ce lo si debba procurare. Tale pensiero implicito, esteso come un decimo di micron eppure fatale, è l’ingresso di ogni tentazione in noi, anzi è la prima tentazione, madre di ogni successivo allettamento. L’idea, per noi connaturale per l’assidua frequentazione e il continuo ascolto, che non siamo amati né amabili, e che se non facciamo da soli nessuno ci amerà.

Questo è il primo “pezzo” di ogni tentazione, che di solito è ignorato, riducendo così la tentazione all’allettamento per qualcosa. Grosso errore! La tentazione è anzitutto un suggerimento interpretativo che parte da un dettaglio negativo e lo amplifica perché si perda di vista l’insieme; sussurra una mancanza, vera o presunta, e induce a leggere le situazioni ambivalenti in modo unilateralmente negativo. Questa è la vera opera del Nemico contro di noi: il resto è corollario e conseguenza. Il diavolo ci offre il suo punto di vista sul reale, uno sguardo tutto in nero, senza sfumature o spiragli. “Ciò di cui Satana gode è il fatto che Beniamino è precipitato in una cecità lucidissima. Il parroco è diventato cieco su tutti i doni che Dio ha posto in lui. Nello stesso tempo è colto da una consapevolezza spietata delle proprie debolezze.” Così Jean Mercier, autore del gustosissimo “Il signor parroco ha dato di matto”, descrive la desolazione in cui cade il prete protagonista del romanzo, quando accoglie questo sguardo del tutto parziale e ingiusto, eppure assurdamente credibile per noi stolti piccoli uomini, tanto innamorati delle nostre interpretazioni del reale da preferirle al reale.

Il problema infatti non sarebbe neppure che il tentatore faccia il suo mestiere, suggerendoci le sue letture nere dei fatti. La vera tragedia è che noi le accogliamo come nostre, perché, dimenticandoci che nella vita è presente anche la dimensione della lotta spirituale, confondiamo le tentazioni con fasi del nostro processo psichico personale, e dunque non le combattiamo perché cadiamo tutti, chi più chi meno, in un diffuso “psicologismo” che dimentica la componente spirituale, quella che muove sì la psiche, ma se ne distingue come origine altra e trascendente. Se dunque è vero e chiaro che sia lo Spirito Santo che il tentatore comunicano alla coscienza mediante i processi della nostra psiche (pensieri e sentimenti), è pur vero che l’indole di tali processi non esaurisce il campo della nostra interiorità, ma ci deve piuttosto indurre a risalire all’origine (spirituale) dei moti stessi, onde accogliere quelli luminosi, costruttivi e ispirati, e respingere quelli mossi dal fondo buio e informe del pre-umano pulsionale in noi, in cui si aggira il tentatore “come leone ruggente, cercando chi divorare” (1 Pt 5, 8).

Confondendo una tentazione con un semplice “pensiero” le diamo ospitalità nella nostra coscienza, ed essa è libera di insediarsi in noi, e di cambiare il nostro sguardo sulla realtà… e quando ci si fa notare che forse questa lettura dei fatti non funziona, contestiamo chi ci contesta, e difendiamo la visione che nel frattempo è maturata in noi, e che se non cambia ci farà perdere per sempre l’occasione della vera gioia.

Nei brani che accompagnano questa prima domenica di Quaresima nel ciclo A, vediamo da un lato come Eva sbagli dialogando con la tentazione, fino ad assumerne il punto di vista, e in un giardino di cui viene detto che era pieno di alberi “graditi alla vista e buoni da mangiare” (Gen 2, 9), peraltro piantati appositamente dopo la creazione dell’uomo e cioè per lui, il tentatore la induce ad assolutizzare il dettaglio, e a vedere solo l’albero che al momento era loro proibito, per poi vedere solo quello come “buono da mangiare, gradevole agli occhi” (Gen 3, 6): dimentica il contesto e, ormai sospettosa circa le intenzioni di Dio, vuole sbrigarsi a riempire il vuoto prendendo anziché ricevendo. Non accetta la tensione dell’attesa e della fiducia, e arraffa.

Dall’altro lato vediamo il nuovo Adamo, figlio di quella nuova Eva che gli aveva dato la carne proprio con un totale atto di fiducia, che non cade nel trucchetto: non si fa impigliare nel momento e nel dettaglio, serba la memoria dei doni, sa reggere la tensione dell’attesa per sperimentare tutto come dono. In questa capacità di affidarsi attraversando il vuoto Cristo svela la vera dignità non solo di Lui come Figlio, ma anche della natura umana in quanto tale, quando accetta di credere al proprio valore, e infatti si dice nel brano di Matteo che alla fine “degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano”: quando l’uomo smette di accontentarsi delle interpretazioni della sua vita a partire da traumi e mancanze, e dei mezzucci per riempirsi che le sue voglie gli suggeriscono, inizia a diventare un dio servito dagli angeli. Quello che la tentazione aveva promesso per poi togliere (“Sareste come Dio”, Gen 3, 5), Dio lo prepara in abbondanza per chi accetta la vera sfida e la principale lotta spirituale: fidarsi nell’attesa.

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