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Giornata mondiale malato. Don Angelelli (Cei): “Guarire se possibile, curare sempre”

Competenza, ma anche misericordia, vicinanza, consolazione. E soprattutto speranza. Sono le parole chiave della cura. Non ha dubbi il responsabile della Pastorale della salute della Cei, che in occasione della Giornata del malato che ricorre oggi ha voluto ringraziare i "curanti" con un momento di preghiera e una lettera.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

“Il tema della XXX Giornata mondiale del malato ‘Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso’ ci presenta Dio come modello di misericordia e il sottotitolo ‘Porsi accanto a chi soffre in un cammino di carità’ illumina fortemente questa chiave di lettura e ci interpello tutti, ognuno a diverso titolo”. A sottolinearlo al Sir è don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei, secondo il quale la malattia richiede “alcuni gesti fondamentali di prossimità”. Anzitutto il porsi accanto. “Non si può assistere una persona malata e condividerne il cammino se non fisicamente presenti. Nell’intervista rilasciata domenica sera a ‘Che tempo che fa’ Papa Francesco ha parlato del tatto come uno dei sensi più completi – ricorda il direttore dell’Ufficio Cei -. Il malato cerca il contatto perché la malattia isola. Per questo il primo approccio che proponiamo nell’ambito della pastorale della salute è quello di porsi accanto. Né di fronte al malato, né dietro per sospingerlo, ma a fianco. Perché si cammina insieme.

Porsi accanto a chi soffre in un cammino di carità. A questo è chiamata la comunità cristiana.

Del resto, osserva don Angelelli, “l’esperienza degli ultimi due anni e mezzo ci ha insegnato che la dimensione della salute non è scontata. Prima della pandemia eravamo sicuri del nostro benessere, della nostra condizione fisica. Ora è emersa la fragilità intrinseca di questa dimensione, che va difesa”.

foto SIR/Marco Calvarese

Tre protagonisti. Ritornando allo scenario della malattia il direttore dell’Ufficio Cei vi ravvisa “tre protagonisti fondamentali”. Anzitutto il sofferente, “colui che vive in prima persona questa esperienza. Al centro di tutte le dinamiche, occorre evitare che da soggetto del percorso di cura ne diventi oggetto”. E niente frammentazioni: “Non dobbiamo curare una patologia o un organo malato, bensì tutta la persona. Obiettivo,

guarire se possibile, curare sempre.

Quindi ci sono i familiari e gli amici che intorno al malato ne condividono la sofferenza, se ne prendono cura con piccoli gesti d’amore e attenzione che acquistano un valore immenso, ma si trovano a vivere un senso di impotenza e frustrazione per non poter fare di più. Anch’essi – spiega Angelelli – sono destinatari della nostra azione di sostegno nei momenti di fatica”.
Terzo protagonista, “il professionista della cura: medico, infermiere, operatore sociosanitario. Tutti coloro che con grande professionalità si prendono cura delle persone, in questi ultimi anni più che mai esposti al dolore e alla sofferenza degli altri che vivono anche su di sé. Anche loro, i curanti, devono essere oggetto di cura affinché possano vivere e operare in condizioni di serenità”. Non a caso, prosegue il direttore dell’Ufficio Cei, abbiamo loro dedicato due iniziative”.

Una preghiera e una lettera di ringraziamento. La prima, lo scorso 4 febbraio, intitolata, “Invece un samaritano”, è consistita in un’ora di adorazione eucaristica in diretta su YouTube dalle cappelle degli ospedali Borgo Roma di Verona, Madre G. Vannini – Figlie di san Camillo (Roma) e Policlinico universitario di Modena, e dalla parrocchia-santuario Opera Santi Medici Cosma e Damiano di Bitonto (Bari). “Per un’ora – spiega il sacerdote – le cappellanie ospedaliere si sono fermate e riunite idealmente in una preghiera di ringraziamento a Dio per il dono dei curanti”.Il 9 febbraio invece, a nome dell’Ufficio da lui guidato, don Angelelli ha voluto inviare a tutti i curanti una lettera: “Li conosco, conosco il loro infaticabile impegno nel prendersi cura dei sofferenti, abbiamo passato anni insieme, ci vogliamo bene, ci siamo sostenuti nei momenti difficili, nelle notti che non passavano mai. Per questo li porto tutti nel cuore”. “Per tutti i curanti ho stima, gratitudine, affetto – prosegue -. Da loro ho imparato molto e questa lettera è dedicata a loro”. Non solo riconoscenza; il documento evidenzia anche diversi nodi cruciali e offre indicazioni per risolverli, ma si chiude con una luce di speranza. “Questa è la parola chiave: la speranza che trasforma lo sguardo. Quando si incontrano due persone, il curante e il curato, nasce la vera presa in carico”. Così, per il sacerdote,

“il paziente diventa strumento di realizzazione non solo professionale, ma anche di umanità e di grazia, del curante”.

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